Regionalismo differenziato, la lezione elvetica
Secondo due politologi l'esperienza del federalismo svizzero può essere utile all'implementazione dell'autonomia regionale in Italia ma va garantita la solidarietà tra territori, come nella Confederazione.
Lo scorso 23 gennaio il Senato italiano ha approvato, tra le proteste dell’opposizione, il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, almeno sulla carta, attribuisce vaste competenze alle regioni a statuto ordinario.
Una svolta per certi versi epocale che ridisegna l’assetto istituzionale italiano, costruito con connotati marcatamente centralisti derivati dallo Stato unitario sabaudo nato sotto la spinta risorgimentale. La riforma caldeggiata dalla Lega, che insieme al premierato promosso da Fratelli d’Italia costituisce uno degli obiettivi centrali su cui intende profilarsi l’attuale maggioranza di governo, necessita comunque ancora di ulteriori passaggi e adattamenti, tra cui l’esame dell’altra Camera, prima di vedere la luce.
Il disegno di legge (C 1665)Collegamento esterno, come recita il titolo, attua l’autonomia differenziata nelle 15 regioni a statuto ordinario ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione italiana. In sintesi possono venire trasferite a livello periferico, su richiesta delle singole Regioni, 23 materie (tra cui trasporti, sanità, istruzione, energia, sicurezza del lavoro) di rilevanza nazionale.
Preliminarmente lo Stato dovrà definire, attraverso la cabina di regia istituita dalla Legge di bilancio, i LEP (livelli essenziali di prestazioni) per assicurare standard minimi e uniformi su tutto il territorio nazionale. I relativi decreti dovranno essere emanati entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge. Nel frattempo parte la trattativa tra le Regioni interessate e lo Stato (il periodo minimo per raggiungere l’intesa deve essere di almeno cinque mesi).
Sulle materie che passano alle Regioni, queste potranno trattenere una quota del gettito destinato a Roma, per l’importo che è stato precedentemente definito. Il principio di fondo è che dalla riforma non debbano derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (art. 8 ddl).
È prevista una clausola di salvaguardia che attribuisce allo Stato il potere di subentrare alle Regioni in caso di inadempienza da parte di queste ultime. L’intesa può essere rinnovata dopo dieci anni.
Dal profilo politico e istituzionale, però, il voto di Palazzo Madama dischiude già scenari inediti (e da alcuni temuti) per il futuro.
C’è infatti chi ritiene che il progetto sia insostenibile per la finanza pubblica poiché implicherebbe una moltiplicazione incontrollata dei centri di spesa a livello periferico. E, inoltre, che sia sostanzialmente iniquo poiché aumenterebbe le disparità sociali ed economiche tra territori, in particolare tra regioni virtuose e quelle meno forti finanziariamente.
Sul fronte opposto viene sottolineata l’opportunità offerta dalla quota di gettito fiscale che verrebbe trattenuta dalle regioni, con la quale queste potrebbero finanziare servizi e prestazioni alla popolazione e alle aziende in modo più efficace e diretto rispetto allo Stato centrale.
Una Confederazione di cantoni sovrani
Su questi temi è interessante osservare l’esperienza maturata nei secoli dalla Confederazione elvetica, che dal 1848 è uno Stato federale, in cui i cantoni sovrani, come recita la Costituzione svizzera, godono di ampie prerogative, in particolare in ambito fiscale e nell’ordine pubblico.
E, laddove sia proponibile un confronto, può essere indicativo analizzare quali siano gli effetti di determinate scelte.
Art. 3 della Costituzione svizzera
“I Cantoni sono sovrani per quanto la loro sovranità non sia limitata dalla Costituzione federale ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione”.
“L’esperienza svizzera dimostra che le autonomie a livello regionale, se ben gestite non generano disparità notevoli”, rileva Paolo Dardanelli, professore di politica comparata all’Università di Kent (UK). Anche a livello fiscale si è cercato di mantenere una marcata autonomia e una concorrenza tra cantoni, due elementi che nella letteratura vengono in genere valutati negativamente ma nel modello elvetico, dice il politologo italiano, non hanno prodotto divari eccessivi a livello socioeconomico.
Il correttivo della perequazione finanziaria
Ovviamente nel tempo qualche squilibrio, che è inevitabile in ogni sistema di decentramento, si è sviluppato ma sono stati creati strumenti per combattere le disparita, come la “perequazione finanziaria”.
Un elemento questo che viene citato anche da Sean Müller, docente di federalismo svizzero e comparato, politica territoriale e democrazia diretta all’Università di Losanna, che ricorda come la perequazione finanziariaCollegamento esterno, introdotta per la prima volta nella Costituzione federale – con un impatto piuttosto circoscritto – nel 1958, è di fatto entrata in vigore nel 2008 dopo la votazione popolare del novembre 2004 che ha dato via libera a una nuova regolamentazione organica e ampliata. “È sempre un dare e un avere, i comuni più forti hanno accettato di contribuire alle finanze di quelli meno ricchi in cambio di una maggiore autonomia” indica il politologo dell’Università vodese.
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Va precisato che in questo meccanismo di solidarietà confederale la parte principale la svolge la Confederazione. Dei circa sei miliardi in gioco a titolo di compensazione, quattro sono infatti versati dallo Stato federale. Ma i cantoni, come Berna che ne riceve ben un miliardo, ne fanno poi quello che vogliono, “senza condizioni”.
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Ma vi sono altre forme di riequilibrio tra cantoni che si aggiungono all’istituto della perequazione finanziaria, precisa Sean Müller, che al riguardo menziona programmi specifici, come la Nuova politica regionale, o il gettito di competenza della Confederazione versato dalle aree produttive urbane, che sono anch’essi una forma di trasferimenti compensativi tra regioni, il cui ammontare complessivo alla fine non è quantificabile in modo preciso.
Federalismo simmetrico elvetico
Tutto questo come si declina nel contesto italiano? A differenza della Svizzera, dove vige un “federalismo simmetrico” in cui tutti i cantoni sono uguali, in Italia – sottolinea Paolo Dardanelli – si sta affermando un pronunciato regionalismo asimmetrico: l’evoluzione storica è diversa, ci sono differenze strutturali profonde tra Nord e Sud e “la spinta viene dalle regioni forti e ricche che non hanno uno statuto speciale e che vogliono una maggiore autonomia per gestire le risorse in maniera più efficiente”, come nel caso della Lombardia che afferma di voler governare l’istruzione in un altro modo.
Ed “è anche plausibile” che l’amministrazione locale in certi ambiti sia, sul piano teorico, migliore di quella statale ma la pratica può essere ben diversa: “La prospettiva standard nella letteratura è che il livello più vicino ai cittadini e ai territori” sia effettivamente più efficace.
Ma “se si guarda dal punto di vista comparato le varie forme di decentramento si constata che di per sé queste non migliorano necessariamente le politiche pubbliche”, evidenzia l’accademico di dell’Università di Kent. Queste infatti dipendono essenzialmente dalla qualità del personale e dei servizi erogati e dai processi adottati dalle singole amministrazioni.
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Poi c’è il discorso politico: le regioni meridionali, “in concreto, l’autonomia non la chiedono”. Lo testimonia, cita Paolo Dardanelli, la questione dell’ordine pubblico, che in Svizzera costituisce una prerogativa fondamentale dei cantoni, ma in Campania, ad esempio, sarebbero in pochi a proporre un’analoga cosa.
In sostanza sembra quindi che si stiano contrapponendo “due tendenze incompatibili”: da un lato la rivendicazione di alcune regioni, sostenute da determinate forze politiche, di poter trattenere maggiori risorse fiscali e dall’altro il resto del Paese che teme di essere svantaggiato dalla riforma e di doverne pagare le conseguenze.
Le peculiarità elvetiche
Una sorta di autonomia differenziata in Svizzera è data dalla facoltà, da parte di gruppi di cantoni, di regolare tra di loro determinate materie attraverso i concordati intercantonali, osserva Sean Müller, come quello stipulato per i piani di studio della scuola nella Svizzera francofona e, in parte, in quella tedesca.
Ma l’impulso, continua, parte dai cantoni e concerne gli ambiti di loro competenza mentre in Italia si vuole realizzare l’autonomia differenziata attribuendo prerogative dello Stato centrale a determinate regioni, ma solo a quelle che lo chiedono espressamente (dopo trattativa) a Roma.
Federalismo differenziato proposto anche in Svizzera
Peraltro c’è da segnalare che a livello politico anche in Svizzera c’è chi ha proposto, con esiti a dire il vero piuttosto modesti – è stato affossato sia dal Govenro che dal Consiglio Nazionale – forme di autonomia differenziata.
È il caso del parlamentare dell’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) Jean-Luc Addor che ha presentato nel biennio 2019-2020 un’interpellanzaCollegamento esterno e successivamente un postulatoCollegamento esterno che delineava la possibilità di introdurre un meccanismo che consenta ai cantoni che lo desiderano, senza alcun obbligo per gli altri, di recuperare alcune competenze che la Confederazione ha ottenuto in due secoli di progressiva centralizzazione in determinati ambiti (pianificazione del territorio, armonizzazione fiscale e istruzione).
A tale scopo il consigliere nazionale vodese citava il cosiddetto “diritto di ritiro” vigente in Canada. Al di là degli aspetti tecnici che renderebbero complicata la sua applicazione nel contesto elvetico, osserva Paolo Dardanelli, tutte queste forme differenti di decentralizzazione appaiono attraenti ma, come si suol dire, l’apparenza inganna poiché i sistemi asimmetrici sono difficili da gestire: “In Canada ci sono dieci grandi province di cui una, il Québec, è grande sei volte la Francia mentre la Svizzera è costituita da 26 cantoni molto piccoli e questo è un fattore che ha spinto a una progressiva centralizzazione”.
Inoltre, aggiunge l’esperto di politica comparata, “ho l’impressione che sia essenzialmente un dibattito accademico” che non si traduce in un’esigenza che emerge dal contesto politico. La cooperazione intercantonale fornisce i necessari elementi di flessibilità al sistema elvetico, spiega Paolo Dardanelli, e se è vero che nel corso dei secoli si è sviluppato un movimento verso sistemi asimmetrici (ad esempio in Canada e in Spagna), “non disponiamo di una grande quantità di risultati a livello comparato che possa darci risposte chiare” sull’efficacia e sugli eventuali problemi creati da questi modelli.
In Spagna si osserva semmai un’evoluzione opposta, contrastata dalla Catalogna, e in Canada il diritto di ritiro vigente dal 1982, che consente alle province sottrarsi a modifiche costituzionali che riducono le loro prerogative, “non è mai stato usato”.
Interrogativi sull’esito della riforma promossa in Italia
Riguardo invece il caso italiano, Dardanelli si dice scettico sull’eventualità che si arrivi a un regionalismo differenziato “significativo”. La riforma a livello costituzionale ha ormai 23 anni (risale al 2001) e finora si sono avute solo molte discussioni e si sono manifestate forti resistenze che si riflettono anche sul quadro normativo, come testimoniano i cosiddetti LED (livelli essenziali di prestazioni), che devono essere garantiti in ogni regione e sono definiti dal governo, compatibilmente con la situazione del bilancio statale.
Alla spinta di alcune regioni settentrionali, che non sembrano però avere un peso politico sufficiente, rileva Paolo Dardanelli, “si contrappone un’azione di retroguardia che tende ad annacquare questa proposta per timori di natura essenzialmente economica”.
Sulla portata effettiva della riforma proposta Sean Müller evidenzia poi che, facendo parte dell’Unione Europea, alcune materie non sono neanche più di completa spettanza dello Stato italiano. È importante, ai fini del successo dell’operazione, che il trasferimento di funzioni avvenga in maniera democratica e sia garantita la solidarietà interregionale.
A Paolo Dardanelli preme sottolineare che in Svizzera “ci sono state ragioni molto forti, di tipo culturale e linguistico che hanno favorito l’affermazione dell’idea federalista mentre in Italia sembra ridursi tutto a una questione di soldi”.
Motivazioni deboli che non si riscontrano ad esempio in Spagna, nazione in cui vige un regionalismo differenziato analogo a quello che si vorrebbe applicare nel Belpaese, dove però esiste l’importante questione delle lingue minoritarie. Il pronostico di Paolo Dardanelli è insomma quello secondo cui alla fine in Italia “il disegno di legge sul regionalismo differenziato passerà, ma non porterà a grandi cambiamenti concreti”.
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