“La disabilità come il colore degli occhi”
Marah Rikli è giornalista, libraia di formazione, moderatrice e mamma di una bambina con disabilità. A colloquio con tvsvizzera.it, racconta a ruota libera di scuola inclusiva, ruoli sociali, ingiustizie, diversità e desideri.
A Marah RikliCollegamento esterno non piacciono le ingiustizie, soprattutto se a subirle sono le persone più deboli e indifese. Come sua figlia. Ronja (che in verità si chiama diversamente) ha quasi nove anni e in agosto inizierà la terza classe elementare a Zurigo. Ronja è una bambina speciale, come lo sono tutte le figlie. Ma lei è più speciale di altre: ha un disturbo dello sviluppo. Questa la definizione breve della caratteristica che la rende unica. Quella lunga: disturbo dello sviluppo del linguaggio, deficit dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD), compulsioni e ipotonia, disabilità intellettiva e molto altro ancora.
Ronja è una figlia speciale e così nella quotidianità cattura l’attenzione della gente che la circonda. Ad esempio sul bus diretto in piscina. Ronja e Marah si siedono nei due ultimi posti liberi. C’è un caldo soffocante. Le porte automatiche si chiudono di scatto facendo un gran rumore. Ronja urla e impreca contro la porta indicandola con un dito. Una passeggera le chiede che problema abbia. Ronja reagisce urlando ancora più forte e mostrandole il palmo della mano, che nel linguaggio dei segni significa “stop”. La donna non capisce e le dà della maleducata. Marah sa che per calmare Ronja ci vuole silenzio. E allora con la sua voce sovrasta tutti i rumori nel bus e spiega alla donna che sua figlia ha un problema con le porte, che ha l’autismo.
Nel bus cala un silenzio imbarazzato. Marah non può sempre spiegare che Ronja soffre di un disturbo dello sviluppo con tratti autistici: ci vorrebbe troppo tempo per farlo. Per questo motivo, nonostante i pregiudizi nei confronti dei disabili, Marah sceglie di dire una mezza bugia che la gente capisce però in fretta.
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Disabilità è quasi una parolaccia
Incontro Marah in un ristorante di quartiere a Wipkingen, nel Canton Zurigo. Difficile trovare un tavolo tranquillo. La linea ferroviaria da un lato, dove sono in corso dei lavori, una strada trafficata dall’altro lato. Rinunciamo a un posto all’aperto, in una giornata di sole in questa primavera tardiva, per sceglierne uno all’interno. Ma anche qui ci arrivano i rumori della cucina e del bar. È con un po’ di frustrazione che iniziamo l’intervista. Una sensazione che Marah conosce molto bene. La prova quasi quotidianamente. Marah è autrice, libraia di formazione e moderatrice. Scrive regolarmente dei testi sulla vita con sua figlia che pubblica sul blog “Mamablog: Leben mit behindertem Kind” del quotidiano Tages Anzeiger o su “ellexx” e sulla rivista per insegnanti “Rundgang”. La descrizione del viaggio in bus è tratta da un suo postCollegamento esterno. Con i suoi articoli vuole rendere visibile l’invisibile, dare voce a chi non ce l’ha.
“Sono stati i miei figli a politicizzarmi”, racconta. “Prima è arrivato il femminismo. Come madre mi sono resa conto di ciò che questo Paese non ha fatto negli ultimi decenni, ad esempio la promozione di misure volte a conciliare lavoro e famiglia. E poi non volevo adeguarmi a ciò che la società si aspetta da una mamma: di essere sempre al fianco dei figli perché sono l’unico progetto di vita. E se ci sono problemi a scuola, la colpa è della madre, mai del padre”. Marah non ci sta. È abituata ad andare controcorrente. Quando era ragazza si identificava con chi era diverso, con gli anticonformisti. Con la nascita di Ronja si è vista addosso gli occhi giudicanti della gente che l’hanno fatta sentire in colpa. “Nella nostra società, la disabilità viene associata a qualcosa di negativo. È quasi una parolaccia. È qualcosa che si deve nascondere, della quale ci si deve vergognare. E invece dovrebbe essere vista come una caratteristica, come il colore degli occhi o dei cappelli”. È qualcosa che Marah ha imparato durante gli incontri con attivisti dell’inclusione, come il tedesco Raul Krauhtausen o il moderatore svizzero Jahn Graf.
“Nella nostra società la disabilità è vista come qualcosa da nascondere. Invece dovrebbe essere vista come una caratteristica, come il colore degli occhi o dei capelli”
Marah Rikli
Marah è un fiume in piena e il suo espresso è ormai freddo. In una pausa le chiedo cosa significhi per lei inclusione. “Mia figlia frequenta una scuola di pedagogia speciale. Le classi contano da cinque a otto bambini che sono accompagnati da due o tre persone con una formazione adeguata in logopedia, psicoterapia o pedagogia curativa. E poi c’è la mensa e il doposcuola, un ambiente in cui Ronja si sente a proprio agio”, dice Marah. “Lo so; è una contraddizione che da una parte mi batta per l’inclusione delle persone con disabilità e dall’altra mandi mia figlia in una scuola speciale. Ma è la soluzione migliore sia per mia figlia sia per me: mi permette di tirare il fiato e di essere attiva professionalmente”. Prima di incontrarci, Marah si è fatta qualche vasca in piscina. Dopo finirà di trascrivere un’intervista. Di sera modererà un dibattito nell’ambito degli incontri dal titolo “Karl*a der*die Grosse”.
Marah Rikli ha un altro figlio di 18 anni che segue una formazione professionale. È andato a scuola in una classe ordinaria. Negli ultimi anni di obbligatorietà scolastica gli è stato diagnosticato un deficit dell’attenzione e dell’iperattività (ADHD). Nelle elementari godeva di un sostegno per l’integrazione e terapie di psicomotricità educativa.
Mancano risorse
“Secondo me nelle scuole regolari non ci sono risorse a sufficienza”, dice la quarantaduenne. “Le classi sono troppo grandi per promuovere l’inclusione di bambini con esigenze particolari. E poi c’è tutta questa pressione, questa gara verso il liceo: è un imperativo in alcuni ceti sociali”. È una situazione che la preoccupa e su cui si interroga da tempo: “Chi ha accesso all’istruzione? Chi viene discriminato nel sistema educativo? Se un bambino è disabile, proviene dalla classe operaia, è obeso, non bianco, viene trattato in maniera diversa rispetto al bambino bianco, non disabile di una famiglia accademica. Non abbiamo pari opportunità in Svizzera, anche se spesso ce lo vogliono far credere”, dice.
Marah sa anche che ci sono tanti insegnanti che si fanno in quattro per le allieve, gli allievi, le classi. Loro hanno l’acqua alla gola: classi numerose, scolari problematici, genitori esigenti, scarso riconoscimento sociale. “Si scrive e si legge troppo poco di storie positive, insegnanti impegnati e inclusione riuscita”, trova la giornalista. “Forse l’integrazione in una classe regolare non è sempre la soluzione migliore, almeno non per mia figlia”, ammette Rikli. “Forse un cambiamento completo del sistema scolastico favorirebbe il processo verso una vera inclusione. Certo non può avvenire dall’oggi al domani. È però il desiderio di una mamma di due figli che non rientrano nella norma”. Marah Rikli non lo dice con gli occhi spenti di chi è stanco di lottare. La sua battaglia per una società inclusiva non è finita. Ci salutiamo alla fermata del bus. Oggi è da sola. Con sua figlia sarebbe tutta un’altra storia. Lei farebbe emergere in superficie ciò che è invisibile, latente. L’incomprensione nei confronti del diverso.
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