Oltre un medico su tre in Svizzera è straniero
Aumenta la dipendenza della Svizzera dai medici stranieri e l'associazione di categoria Fmh lancia l'allarme. In Ticino sono ormai uno su due, in stragrande maggioranza italiani.
Più di un medico su tre attivo nella Confederazione ha conseguito un diploma all’estero, secondo quanto indica la statisticaCollegamento esterno pubblicata dall’Fmh. Dei 38’502 professionisti conteggiati nel 2020 ben 14’386 – vale a dire il 37,4% – provengono da oltre frontiera.
L’incremento rispetto all’anno precedente è stato dell’1,1%, ma appare più significativa l’evoluzione in una prospettiva di più lungo periodo, che si può riassumere in un paio di dati: otto anni fa la loro quota era del 29% (8 punti in meno) e dei 5’260 medici che hanno iniziato ad operare dal 2013 in Svizzera, l’88% (4’630) è titolare di una laurea conseguita all’estero.
Ad attrarre i professionisti stranieri nella Confederazione sono senza dubbio le possibilità di carriera e gli elevati stipendi e la loro destinazione è soprattutto nei nosocomi (40,5%), a fronte di una loro concentrazione inferiore negli ambulatori (34,5%).
Il fenomeno presenta connotazioni particolari in cantoni di frontiera come il Ticino dove i medici stranieri, quasi tutti italiani, hanno ormai superato quelli formati nelle università svizzere: sono infatti ora 1’053 su 2’071, vale a dire il 50,8%, secondo le cifre contenute nel rendiconto 2019 del Dipartimento cantonale della sanità (Dss). A livello federale sono però i germanici (52,6%) a fare la parte del leone tra i camici bianchi stranieri, seguiti dagli italiani (9,1%), dai francesi (7,1%) e dagli austriaci (6,0%).
Medici e vasi comunicanti
Una situazione che non ha riscontri analoghi negli altri paesi europei, come emerge sempre dalle crude statisticheCollegamento esterno: i medici stranieri sono infatti “solo” l’11,5% in Francia e Germania, il 4,9% in Austria e addirittura l’1,4% in Italia. Anche se poi le cifre vanno sempre interpretate e inserite in un contesto più ampio, segnala Mattia Lepori, viceresponsabile area medica dell’Ente ospedaliero cantonale (EOC) ticinese. “Anche altre nazioni hanno carenze di medici, si tratta di un fenomeno di vasi comunicanti”, spiega il dirigente sanitario: “I medici germanici, formati a spese dello Stato tedesco, che lavorano negli ospedali svizzeri vengono a mancare a Berlino che poi li attinge ai paesi limitrofi del blocco orientale. Il risultato è che alla fine i medici mancano sempre ai paesi con meno risorse, e questo è un dato che sfugge a questo tipo di analisi”.
In proposito il ministro tedesco della sanità Jens Spahn aveva proposto un paio di anni fa l’adozione di misure specifiche (in realtà di difficile attuazione) per evitare l’emigrazione (soprattutto in Svizzera) di specializzati formati a spese del contribuente tedesco.
E anche in Italia, in piena pandemia nel marzo 2020, c’era chi ventilava la precettazione del personale sanitario (medici e infermieri) impiegato all’estero, una eventualità – scongiurata dalle tempestive mosse della diplomazia elvetica – che aggiunta alla temporanea chiusura delle frontiere “ci ha fatto passare alcune notti insonni”, secondo le parole di Mattia Lepori: “La precettazione del personale sanitario da parte di Stati stranieri dal profilo giuridico poteva anche essere contemplata e sarebbe stata una catastrofe per noi”.
Salari più elevati ma non solo
Questo però non basta a spiegare la crescente dipendenza della sanità svizzera dall’estero, come indicano gli esponenti del settore, concordi nell’indicare nelle severe condizioni di accesso alle università la causa principale della penuria di medici indigeni. “In Svizzera si continua a investire poco nella formazione e a sbagliare con il numerus clausus nelle facoltà di medicina” e con “un esame di ammissione che è tutto meno che un test adatto per i futuri professionisti”, osserva Franco Denti, presidente dell’Ordine dei medici ticinesi (Omct).
Concetto ripreso dal dottor Mattia Lepori che lo spiega con gli elevati costi “che in Svizzera ammontano a un milione di franchi per ogni laureato” e il “rimpallo di responsabilità” dal profilo finanziario tra Confederazione e cantoni. Se da un lato infatti Berna invita ad aumentare il numero di medici, dall’altro “la gestione del curriculum universitario e il contingente degli studenti sono a carico dei cantoni”.
Ma oltre alle carenze a livello di formazione il dirigente dell’EOC punta l’indice anche sulle errate stime relative al fabbisogno sanitario effettuate nei decenni passati (“Quando studiavo negli anni ’80 volevo fare il pediatra ma mi era stato sconsigliato mentre ora non ce ne sono a sufficienza”) e al radicale cambiamento delle modalità di lavoro negli ospedali, dovuto all’assenza in precedenza di un contratto che definisse in dettaglio l’orario massimo e i tempi di recupero per i medici assistenti e i capoclinica.
“Il numero di medici per la stessa percentuale di pazienti da curare era nettamente inferiore e non era assolutamente un’eccezione lavorare 75-80 ore alla settimana negli anni ’90”, precisa Mattia Lepori, che al riguardo ricorda la sua esperienza all’epoca in un ospedale vodese dove il picchetto nel fine settimana durava dal sabato mattina al lunedì a mezzogiorno. “Per coprire la stessa fascia oraria oggi ci sono quattro persone che si alternano” e questo, insiste il medico luganese, necessita di un numero sensibilmente maggiore di professionisti.
“Abbiamo una diversa cultura sanitaria”
Negli ambienti medici elvetici non si sottace il fatto che il sensibile afflusso di laureati in altri paesi, portatori di una “cultura sanitaria assai diversa”, possa avere un impatto sul servizio reso in questo delicato settore, che si ripercuote sulla presa a carico dei pazienti e sulla stessa prestazione. La professione medica in Svizzera, rileva il presidente dei medici ticinesi Denti, ha un prestigio riconosciuto che all’estero è ormai scomparso. “Abbiamo a che fare magari con funzionari bravi e preparati ma manca il denominatore comune dato dalla vicinanza al paziente e da alcune tutele come la privacy” che da noi vengono garantite in modo speciale, osserva il responsabile dei medici ticinesi.
Questo è dovuto anche al fatto che la formazione non risulta sempre identica: “se va bene in Italia, ad esempio, un medico pratico o generico ha fatto tre anni in ospedale mentre in Svizzera dopo i sei anni di università occorre effettuare 5-6 anni di specializzazione con almeno sei mesi in uno studio medico”, tiene a sottolineare Franco Denti.
Ma c’è un secondo fenomeno che l’alta presenza dei camici bianchi stranieri contribuisce ad alimentare, quello dei centri medici in cui operano più professionisti che, a parere del presidente dell’Omct, di fatto esercitano forme di “concorrenza sleale” sugli studi privati, oltre che a provocare più costi. In queste strutture, sostiene Franco Denti, i medici tendono ad essere dipendenti stipendiati e “i professionisti stranieri si adeguano ben volentieri” a queste condizioni. Non ci si dovrà quindi sorprendere se in questo contesto ci saranno in futuro medici disoccupati, soprattutto tra quelli più anziani, e pressioni sulle remunerazioni degli stessi, avverte sempre Franco Denti.
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