In Svizzera la strada resta libera per le infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici
Un certificato antimafia per le imprese italiane in Svizzera non è né opportuno né necessario. È il parere espresso dal Consiglio federale in un rapporto pubblicato il 6 dicembre scorso.
Il rapportoCollegamento esterno è stato redatto in risposta a un postulatoCollegamento esterno presentato nel giugno 2022 da Marco Romano. L’allora consigliere nazionale ticinese del Centro ha chiesto al Governo di valutare la possibilità di obbligare le imprese con sede in Italia a presentare un certificato antimafia nell’ambito degli appalti pubblici federali e cantonali, almeno quelli che comportano grandi volumi finanziari. Il Consiglio nazionale aveva dato un segnale politico forte, adottando subito questo postulato. Altrettanto incoraggiante la prima risposta del Consiglio federale, che si è dichiarato “ben consapevole dei pericoli che le organizzazioni criminali e il crimine organizzato comportano anche nel settore degli appalti pubblici”.
Il certificato antimafia in questione è uno strumento che lo Stato italiano ha introdotto negli ultimi dieci anni in tutte le sue relazioni con imprese, società, consorzi e fino all’ultimo dei loro subappaltatori. Si tratta di un documento rilasciato dalle prefetture, previa consultazione di una banca dati nazionale, su richiesta dell’aggiudicatore pubblico (qualsiasi ente statale). Questa banca dati antimafia registra tutti i casi di collusione, appartenenza e infiltrazione mafiosa. Il certificato non è una garanzia infallibile, ma un modo per garantire l’affidabilità e la moralità di chi si candida a un appalto pubblico. Inoltre, ha il merito di coinvolgere automaticamente tutti i poteri pubblici nella lotta contro le mafie, un aspetto che manca in Svizzera.
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Uno strumento discriminatorio
Con l’adozione del postulato Romano nel 2022, la strada verso nuove misure concrete per proteggere l’economia legale sembrava aperta. Ora però, due anni dopo, il Consiglio federale, con una curiosa inversione di tendenza, ritiene che il certificato antimafia non sia necessario in Svizzera. La questione principale è che, concentrandosi esclusivamente sulle imprese italiane, viola il principio di non discriminazione. Un altro argomento avanzato è il rischio di alimentare un “sospetto generalizzato che tutte le imprese italiane potrebbero avere un legame con la mafia”. Il Consiglio federale ricorda che la legislazione attuale offre “la possibilità” di richiedere un certificato antimafia, ma solo in teoria e solo in “caso di dubbi” sul pedigree fornito dall’offerente italiano.
Come spesso accade, Berna solleva anche complicazioni pratiche: gli appaltatori svizzeri non hanno accesso alla banca dati antimafia italiana, quindi dovrebbero “contattare le autorità italiane tramite l’ambasciata svizzera a Roma, ma ciò causerebbe ritardi nelle procedure di appalto”. Questi ritardi sembrano pesare più sulla bilancia rispetto al fatto di aprire la porta a categorie di imprenditori sulle quali le autorità italiane sono le prime a puntare il dito, chiedendo alla Svizzera e all’UE di dar prova della massima vigilanza. Infine, si legge nel rapporto, “la quota di aggiudicatari con indirizzo in Italia è piuttosto bassa, almeno a livello federale in tutta la Svizzera”. Questo dimostra, secondo il Governo, che il certificato antimafia non è necessario.
Per quanto riguarda il rischio di associare automaticamente un’azienda italiana al crimine organizzato, i possibili sospetti in questo senso non sono del tutto infondati, se si considera il numero eloquente di aziende mafiose censite da Roma: più di 150’000 su tutto il territorio (15’000 nella sola provincia di Milano), principalmente nei settori dell’edilizia e delle grandi opere (30%), dell’immobiliare (15%) e dell’industria manifatturiera (11%).
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Circa l’aspetto discriminatorio, l’Ufficio federale delle costruzioni e della logistica (UFCL) conferma che obbligare un’impresa italiana a fornire prove “non sarebbe compatibile con il divieto di discriminazione dell’Organizzazione mondiale del commercio”. L’UFCL ritiene che, poiché la criminalità organizzata è un fenomeno globale, le misure isolate che riguardano un singolo Paese limitrofo non sembrano efficaci. Infine, parlando della registrazione delle imprese straniere – a determinate condizioni – in un futuro “registro di trasparenza dei beneficiari economici”, l’UFCL indica che l’acquirente svizzero potrà “valutare più chiaramente i potenziali rischi”.
Un certificato che andrebbe a beneficio di tutti?
Igor Cima, segretario della sezione Sopraceneri (Ticino) del sindacato UNIA, ritiene invece che la presentazione di un certificato antimafia allo scopo di dimostrare che una società italiana non ha alcun legame con la ‘ndrangheta e simili ” andrebbe a beneficio di tutte le aziende potenziali concorrenti per un grande appalto pubblico, dunque anche a quelle svizzere.”. Ricorda inoltre che si tratta di denaro pubblico, e che il contribuente elvetico non sarebbe così contento di venire a sapere che le sue tasse possono servire, in ultima analisi, a finanziare attività illecite.
Carlo Lombardini, avvocato e professore presso l’Università di Losanna, non è convinto né dall’idea del certificato antimafia, né dal suo trapianto nel quadro giuridico svizzero. Egli ritiene che “lo Stato, in senso lato, debba riconoscere di essere sulla strada sbagliata e di dover essere più realista sui suoi obiettivi”. Lombardini è dell’opinione che si debba puntare prima di tutto su un lavoro giudiziario di sostanza, come si poteva vedere negli anni 1980-1990, che ha permesso di ottenere condanne. I procuratori di oggi “fanno un buon lavoro, ma non si sa quale sia la politica penale che viene seguita”. Pertanto, è fondamentale tornare a metodi più efficaci, come “indagini e lavoro di polizia di alto livello, perseguimento dei reati presupposti e fornitura delle risorse e dei mezzi necessari”.
Il punto è che i mafiosi conoscono le leggi e le loro lacune come le loro tasche. Sono a conoscenza dei metodi della polizia e dei pubblici ministeri grazie ai loro avvocati, che esaminano attentamente le procedure e le sentenze, in cui tutto è scritto. Carlo Lombardini, che non crede nell’efficacia di leggi più restrittive, afferma che “i mafiosi e i terroristi sono criminali che operano in un mondo parallelo”. Impedire a un’azienda mafiosa di lavorare in Italia o in Svizzera a causa di un certificato? Cercherà semplicemente altrove, afferma.
Rilevante soprattutto in Ticino
Igor Cima ritiene invece che il meccanismo italiano sia rilevante nella Confederazione, in particolare in Ticino, uno dei cantoni storicamente più colpiti. “Ogni strumento che permette di limitare i rischi di infiltrazioni mafiose nel nostro Paese e in particolare nel mondo di lavoro in Svizzera avrebbe la sua utilità – afferma. Sono altresì convinto che una sua imposizione avrebbe fatto in alcuni casi anche la differenza”. Il sindacalista si riferisce a casi sospetti e denunciati alla procura ticinese, come casi di “caporalato”, di pizzo sugli stipendi e altre gravi violazioni della legge sul lavoro. “Abbiamo ottenuto delle condanne in Ticino per questi reati – precisa Cima –, ma l’eventuale procedimento in corso in Italia contro queste ditte per legami con la mafia a noi non è noto sino a che non lo si apprende dai media”.
A microfoni spenti, diverse persone del mondo giudiziario che abbiamo contattato oscillano tra rabbia e stupore in seguito al rifiuto del postulato da parte del Consiglio federale. Alcune “osano sperare” che si tratti solo di una forma ingenuità da parte del Consiglio federale, che continua “a credere di essere nel Paese di Heidi”. Altre si chiedono se esista una reale volontà di combattere la mafia, nonostante le dichiarazioni in questi ultimi anni del procuratore generale della Confederazione Stefan Blättler e dalla direzione della Polizia federale.
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