Monteforno, l’acciaieria svizzera che per molti italiani era diventata casa
Dagli anni Cinquanta ai primi Novanta, a Bodio, in Val Leventina, sorgeva un'industria di successo, dal punto di vista produttivo e sindacale. L’uscita del libro di Sara Rossi Guidicelli “Quaderno della Monteforno. Un racconto di fabbrica” ci dà l’occasione di ripercorrerne la storia.
“Alla Monteforno si passavano dieci-dodici ore in media al giorno, allora quella diventa la tua identità. Sei fiero di fare l’acciaio e di metterlo sui vagoni, che vanno sui binari che hai fatto tu. E, quando ti guardi intorno in questo paese che ti ospita, sei fiero che, se le sue case stanno in piedi, è grazie a quei tondini dentro al cemento che hai fatto tu”.
Chi emigra, ovunque vada, si porta dentro una valigia di cultura, storia, identità, appartenenza. Poi però sbarca in un luogo nuovo e ne fa la sua casa. Questo passaggio del libro Quaderno della Monteforno. Un racconto di fabbricaCollegamento esterno, scritto da Sara Rossi Guidicelli e pubblicato dall’Istituto Editoriale Ticinese, testimonia come ci si possa sentire appartenere a più comunità e più paesi.
Gli operai e le operaie della Monteforno Acciaierie e Laminatoi di Bodio, in Val Leventina, erano persone in arrivo prima di tutto dal Nord Italia, dalla zona di Bergamo e Brescia. Poi, la crescente necessità di manodopera negli anni Cinquanta è stata soddisfatta con chi arrivava dal Sud Italia, e poi ancora dalla Sardegna.
Il libro di Rossi Guidicelli, nelle sue 130 pagine suddivise in brevi capitoli che sembrano quasi assaggi di quella quotidianità, racconta che un direttore tecnico della fabbrica ha fatto sapere alla dirigenza che “i sardi sono forti e obbedienti come muli”. E allora si è iniziato a reclutare in Sardegna, in particolar modo a Tula, a una sessantina di chilometri da Sassari.
La comunità sarda
L’autrice è partita da qui: dall’incontro con il Circolo culturale sardo “Coghinas” di Bodio. Dell’oltre migliaio di lavoratori e lavoratrici dell’acciaieria Monteforno, circa 300 arrivavano dall’isola e, nei preparativi per festeggiare i quarant’anni dalla nascita dell’associazione, hanno contattato la scrittrice affinché curasse una loro pubblicazione.
È a quel punto, ci racconta Sara Rossi Guidicelli “che mi sono resa conto di quanto la fabbrica fosse ancora saldamente presente nelle vite di queste persone”. Si parlava di tradizioni, cultura, ci si scambiavano opinioni e specialità culinarie, ma si tornava spesso con la mente in acciaieria. Quella stessa acciaieria che li ha portati lì, a Bodio, dove sono rimasti e dove hanno messo radici.
Colate di acciaio a 2’000 gradi, circondati da 100 decibel
Così, pian piano, è nato il racconto di una fabbrica ticinese che nel Novecento ha attirato nella Val Leventina un migliaio di lavoratori e lavoratrici. Ma soprattutto lavoratori. Una migrazione mirata che ha trasformato la piccola località di Bodio in un centro industriale.
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Il lavoro era fisicamente durissimo: una colata di acciaio avveniva a 2’000 gradi, in fabbrica c’erano 100 decibel e la mole di acciaio prodotto si aggirava sulle 1’500 tonnellate giornaliere. Una macchina che non si fermava mai. I giorni e le notti erano divisi in tre turni, ma molte persone ne lavoravano uno e mezzo o due di fila per guadagnare di più. Eppure, ogni esitazione, ogni minimo errore potevano essere fatali. A volte lo erano.
Un passato molto presente
Dal dopoguerra e fino agli anni Ottanta, la Svizzera ha assorbito la metà di tutte e tutti gli emigrati italiani nel mondo. Hanno costruito gallerie, dighe, strade, ferrovie, centrali elettriche.
A volte i risvolti sono stati drammatici, come nel caso della tragedia di Mattmark nel 1965 o quella di Robiei, un anno dopo. Il loro prezioso contributo e sacrificio sono spesso stati riconosciuti solo a cose fatte.
Ma l’intento dell’autrice, ci sottolinea lei stessa, non è quello di proporre un’analisi storica o sociologica del fenomeno. Se qualcuno fosse interessato a questi aspetti consiglia il libro di Mattia Pelli Monteforno. Storia di acciaio, di uomini e di lotteCollegamento esterno (Fontana Edizioni, 2014), che lei stessa ha consultato e citato.
La sua è piuttosto una raccolta dei racconti: sfumature poetiche che ha colto dai ricordi e dalle impressioni di chi ci ha lavorato, dei loro figli, di chi si è dedicato alla Monteforno anche quando la Monteforno non c’è più stata.
Da Bruno Gatti a Sergio Pertini
Una di queste storie è la storia di Bruno Gatti, classe 1932, figlio di una ticinese di Giornico e di un modenese. Gatti aveva fondato l’infermeria dell’acciaieria e ha passato anni a cercare pazientemente di convincere gli operai che casco, guanti, occhiali e scarpe di sicurezza erano importanti soprattutto per il loro bene e non solo per quello della ditta. Ha però fatto anche molto di più, come ha raccontato la vedova a Rossi Guidicelli.
Bruno Gatti era il responsabile della sicurezza del personale, ha fondato il coro aziendale, organizzato il dopolavoro, i tornei sportivi e le settimane bianche per i figli e le figlie dei dipendenti.
È stata proprio la Società Corale Aziendale Monteforno, la SCAM (che oggi porta ancora lo stesso acronimo, anche se riferito a “Società Corale Amici della Montagna”), composta per tre quarti da immigrati italiani, ad accogliere nel maggio del 1981 il presidente italiano Sandro Pertini, in visita a Bodio mentre da Berna si recava a Lugano.
La Monteforno Acciaierie e Laminatoi è stata fondata nel 1946 a Bodio, aperta nel 1947 è diventata negli anni la principale industria a sud delle Alpi con oltre un migliaio di dipendenti. La stragrande maggioranza di questi erano italiani, circa 300 i sardi. Nel 1977 venne rilevata dalla Von Roll e, da allora in poi, ha faticato a restare a galla. Dall’apice di 1’700 persone impiegate tra gli anni Cinquanta e Settanta, nel 1982 si era arrivati a 920, nel 1986 a 420 e nel 1994, prima della chiusura, a 340. Il 30 gennaio 1995 la fabbrica ha definitivamente chiuso i battenti.
Quando Pertini ricambiò l’invito e, nel settembre di quell’anno, invitò la SCAM al Quirinale in occasione del suo compleanno, gli operai gli portarono in dono un piatto di rame intarsiato dei fiori della Leventina. Erano quasi tutti italiani, ma venivano da Bodio.
Prima degli altri anche sui diritti dei lavoratori
L’aspetto comunitario era molto importante. Forse è stato anche uno degli elementi alla base del successo e delle conquiste sindacali ottenute dagli operai della Monteforno. “Le altre fabbriche ticinesi dell’epoca prendevano esempio e si ispiravano da quanto ottenuto a Bodio per chiedere a loro volta migliori condizioni lavorative”, racconta la scrittrice.
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La Monteforno Acciaierie e Laminatoi ha infatti fatto scuola per quanto concerne le condizioni sociali della classe operaia: era stata istituita la cassa previdenza, ben vent’anni prima che in Svizzera arrivasse l’obbligo. C’erano la rendita per la vecchiaia e quella per vedove e orfani, c’erano indennizzi per invalidità e decesso.
Il declino
A un certo punto, l’azienda diventa forse vittima del proprio successo e una concatenazione di decisioni infelici ne segna la caduta. La prima è stata probabilmente quella di investire, all’inizio degli anni Settanta, in una nuova fabbrica negli Stati Uniti. Una mossa che ha impoverito di liquidità e di manodopera qualificata la casa madre.
A partire dagli anni Ottanta c’è stato il lento e doloroso declino. I licenziamenti graduali hanno dato falsa speranza di sopravvivenza a chi restava, anche se restava ancora per poco e non lo sapeva. La chiusura, avvenuta nel 1995, è stata molto sofferta dai lavoratori e dalle lavoratrici che si sono strenuamente battuti per la sopravvivenza della Monteforno.
A quasi trent’anni di distanza, la fabbrica e il mondo che le girava intorno continuano a essere custoditi nelle storie delle famiglie del posto. Associazioni come la Coghinas e la SCAM restano attive, mentre i racconti delle persone danno vita a libri e documentari.
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