Quei ticinesi che aiutarono i partigiani italiani
Ottant’anni fa si concludeva definitivamente l’esperienza della Repubblica dell’Ossola. Alla lotta partigiana contribuirono anche alcuni ticinesi.
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Dopo la firma dell’armistizio italiano nel settembre 1943, la Germania strinse la presa sul Paese. La resistenza al fascismo si intensificò e presto sorsero piccoli gruppi di partigiani, anche nella zona di Domodossola, non lontano dal confine con la Svizzera. Guidati da ex soldati con esperienza militare, questi gruppi comprendevano anche civili e persino alcuni svizzeri!
Diversi uomini, soprattutto del Locarnese, sostennero attivamente i partigiani nelle valli ossolane e combatterono persino nelle loro file contro i tedeschi e i fascisti italiani. È il caso di Silvio Baccalà, di Brissago, che di giorno lavorava come giardiniere al Gewerkschaftshotel Brenscino e di notte accompagnava i partigiani lungo i sentieri del Gridone verso la Val Cannobina. Oppure Vincenzo Martinetti, padre della cantante ticinese Nella Martinetti. Combatté nelle file del gruppo partigiano Divisione Piave, diventandone in breve tempo uno dei membri più importanti. Vincenzo Martinetti organizzò il trasporto di equipaggiamenti, armi, uomini e donne oltre il confine.
La resistenza al fascismo nelle valli ossolane ebbe molte sfaccettature. Per comprenderla meglio è necessario uno sguardo più approfondito.
Una moltitudine di piccoli gruppi
I gruppi che costituivano la resistenza locale erano generalmente decentrati e poco strutturati. Si adattavano costantemente alle diverse situazioni e alle asperità del terreno, solo così potevano affrontare le sfide che mutavano rapidamente. D’altro canto, questa frammentazione rendeva impossibile intraprendere azioni coordinate e strategicamente ponderate contro le forze di occupazione. All’epoca della Seconda Guerra Mondiale, circa 80’000 persone vivevano a Domodossola e dintorni. Il crollo della Repubblica dell’OssolaCollegamento esterno nell’ottobre 1944 portò decine di migliaia di persone a cercare rifugio in Svizzera, tra cui molti membri della Resistenza.
Nel settembre 1944 i cinque gruppi partigiani della Val d’Ossola, che secondo lo storico Andrej Abplanalp contano complessivamente circa 4’000 uomini, accerchiano Domodossola, dove sono dispiegati 400 soldati tedeschi e italiani.
Le truppe nazi-fasciste – “estenuate e che sovrastimano ampiamente la forza dei partigiani”, scrive Abplanalp in quest’altro articoloCollegamento esterno pubblicato dal blog del Museo nazionale svizzero – sono convinte che gli attacchi che subiscono sono il risultato di una pianificazione congiunta dei diversi gruppi. In realtà non è così e la vittoria dei partigiani è “relativamente fortuita”.
Il 10 settembre, dopo il raggiungimento di una tregua, il contingente nazi-fascista si ritira verso il Lago Maggiore. Viene così proclamata la Repubblica d’Ossola.
A fine settembre le truppe dell’Asse si riorganizzano e dispiegano alle frontiere della neonata repubblica diverse migliaia di uomini. I partigiani confidano nell’aiuto degli Alleati, che però non arriverà mai, poiché dirottato a sostegno della resistenza polacca (Varsavia era insorta a inizio agosto).
Il 9 ottobre i nazi-fascisti passano all’offensiva e riconquistano rapidamente la regione. Il 14 ottobre entrano a Domodossola e nove giorni dopo la Repubblica d’Ossola è disciolta. Circa 10’000 persone trovano rifugio in Svizzera.
Daniele Mariani/tvsvizzera.it
È difficile determinare il numero effettivo di partigiani nelle valli ossolane. Una pratica comune tra i gruppi della Resistenza era quella di utilizzare denominazioni che suggerivano numeri molto più grandi della realtà (bande, brigate, divisioni). Poche decine di partigiani potevano formare una brigata, mentre poche centinaia di combattenti costituivano una divisione. Queste esagerazioni avevano lo scopo di disturbare e intimidire il nemico. I partigiani speravano anche di ottenere più rifornimenti dagli Alleati, aiuti di cui avevano urgente bisogno data la scarsità del loro equipaggiamento.
Le armi scarseggiavano
Alcuni partigiani combattevano con coltelli o addirittura a mani nude. Solo un terzo di loro aveva armi da fuoco, spesso inutilizzabili per mancanza di munizioni. Questa situazione non cambiò realmente durante i 20 mesi di operazioni belliche tra il 1943 e il 1945, in netto contrasto con il livello di equipaggiamento delle truppe tedesche e fasciste. Questa carenza fu solo in parte compensata dalle consegne di armi dalla vicina Svizzera.
Queste armi attraversavano il confine attraverso le rotte dei contrabbandieriCollegamento esterno che trasportavano generi alimentari e tabacco. Erano fornite dagli Alleati, ma a volte erano di dubbia provenienza. Di solito venivano trasportate da svizzeri, anche se a volte i partigiani attraversavano il confine per prenderle. Il confine elvetico era particolarmente permeabile per la Divisione Piave, di cui Vincenzo Martinetti era responsabile della logistica.
Anche per quanto concerne l’abbigliamento la situazione era difficile. I partigiani non avevano un’uniforme; solo il colore della sciarpa che indossavano indicava a che unità appartenevano. Il resto dell’abbigliamento veniva improvvisato in base alle possibilità (limitate) di ciascun combattente. Alcuni rimanevano interamente in abiti civili, mentre altri mescolavano parti di uniformi tedesche e fasciste con abiti di tutti i giorni. Di conseguenza, le bande partigiane a volte assomigliavano più a frequentatori di carnevale che a combattenti della resistenza.
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Comunismo contro anticomunismo
Le sciarpe della resistenza avevano anche un’altra funzione: indicavano chiaramente a quale gruppo politico apparteneva chi le indossava. Questa scelta non era priva di conseguenze, poiché alcuni gruppi erano in totale opposizione tra loro, al punto da non aiutarsi a vicenda nei momenti di pericolo.
Tra il 1943 e il 1945 erano attivi nelle valli ossolane cinque gruppi partigiani, che spaziavano dai monarchici ai combattenti comunisti. Semplificando, i resistenti si possono dividere in due grandi schieramenti politici: le unità garibaldine, che erano comuniste, e le altre formazioni partigiane, più o meno anticomuniste.
Questi due campi non trovarono quasi mai un terreno d’intesa e continuarono a ostacolarsi l’un l’altro. Non c’era la volontà da parte di nessuno dei due schieramenti di collaborare allo sviluppo di una strategia globale contro gli occupanti tedeschi e fascisti. Anche se si fosse raggiunto un compromesso, mancavano i mezzi tecnici per lo scambio di informazioni. Le comunicazioni tra i vari gruppi partigiani erano scarse: solo poche formazioni disponevano di radio, utilizzate quasi esclusivamente su base fissa. La maggior parte delle informazioni veniva trasmessa da giovani donne che fungevano da corrieri. Si stima che ogni unità della Resistenza avesse due o tre corrieri. Questo metodo di comunicazione era lento e limitava fortemente la possibilità di effettuare operazioni congiunte rapide.
La Resistenza contava anche altre donne tra le sue fila. Come Gisella Floreanini, partigiana e membro del governo della Repubblica dell’Ossola, dove divenne il primo ministro donna nella storia d’Italia. O l’infermiera Maria Peron, che si prendeva cura dei soldati feriti e li operava se necessario. Anche a Locarno, in Ticino, i sostenitori della Repubblica dell’Ossola ebbero il sostegno di una donna: Gaby Antognini. Questa donna ticinese nascondeva i partigiani fuggiti dai campi di internamento svizzeri e li aiutava a passare il confine per continuare la lotta contro gli occupanti tedeschi e fascisti.
Dopo la fine della guerra, il resistente ticinese Vincenzo Martinetti fu decorato dalle organizzazioni partigiane delle valli ossolane. Un tribunale militare svizzeroCollegamento esterno lo condannò invece a quattro mesi di reclusione e a una multa per violazione della neutralità. La pena detentiva fu però sospesa.
Lo storico Raphael Rues è uno specialista del Ticino e della presenza della Germania nazista nell’Italia settentrionale.
L’articolo originale sul Blog del Museo nazionale svizzeroCollegamento esterno
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