È Berlusconi il rottamatore
Era l'aprile 2010, lo ricordo bene quel giorno. La grande sala su via della Conciliazione, a due passi dal Vaticano, alcune centinaia di senatori e deputati, una tensione politica inedita per il partito aziendale del padre-padrone, Berlusconi sul palco, il suo ultimo e più minaccioso rivale interno seduto in prima fila, circondato dai suoi pretoriani.
Berlusconi attacca, gli rimprovera i troppi dissensi, gli dà l’ultimatum, o dentro o fuori dal partito (allora era ancora “delle libertà”). A quel punto si alza Gianfranco Fini (successore designato), va sotto il microfono dell’oratore, e tutti sentono che dice, accompagnando le parole con il gesto della mano, “che fai, mi cacci?”. Battuta rimasta negli annali della recente vicenda politica italiana. Si pensò, di fronte a quel clamoroso strappo, che il divorzio voluto dal cavaliere avrebbe provocato guai seri al berlusconismo. Ma sappiamo com’è finita. Fini emarginato e senza truppe camellate, e Silvio rimasto a galla.
Di delfini, Berlusconi ne ha fatti fuori tanti. E se ne riparla ora che ha deciso, con una brusca sterzata, di scaricare anche Stefano Parisi, che dopo la buona prestazione nella corsa a sindaco di Milano, lo stesso leader di Forza Italia aveva indicato come il possibile prescelto: ex socialista e anima liberale, esperienza romana anche a Palazzo Chigi, già city-manager della Moratti, moderazione e concretezza. Un tecnico espressione anche del mondo imprenditoriale. Apparentemente perfetto per Silvio.
Ed ecco che invece viene bruscamente sacrificato sull’altare dell’unità con la Lega “lepenista” di Matteo Salvini, con cui Parisi si scontra un giorno sì e l’altro pure. Berlusconi sa far ancora di conto, ritiene che la frattura provocata dal successore designato (pur a mezza voce) è al momento pericolosa, non tanto per i malumori espressi da quasi tutti i suoi colonnelli, ma soprattutto in vista del referendum costituzionale in cui è in gioco il futuro politico di Renzi. Del resto c’è sempre, per il cavaliere, un buon motivo per cacciare i disubbidienti impenitenti. E bisogna ammettere che i nemici ne sono usciti tutti malconci. O sottomessi o rottamati.
Da Casini, un altro papabile alla successione, vissuto male per il suo protagonismo, a Fini, stufo della conduzione ad personam del partito, e dissidente nonostante a Berlusconi dovesse lo sdoganamento dei post-fascisti; da Angelino Alfano, il “figlio” a cui mancava però il “quid”, a Raffaele Fitto, il “figliol viziato” del centro-destra, a Denis Verdini, il toscanaccio che ha preferito naufragare in altri mari prima di affondare nelle faticosissime risse interne. Chi è diventato alleato del PD, e chi si limita a qualche comparsata televisiva, ma nessuno di loro ancora autentico protagonista della scena politica.
Berlusconi invece, nonostante i sondaggi e l’indebolimento progressivo, di quella scena si sente ancora attore insostituibile. Così ha accantonato Parisi (“litiga troppo con la Lega”), ma poi ha dato una sferzata ai brontoloni di Forza Italia dichiarando che in realtà “l’unico vero leader oggi in Italia è Renzi”. Non è una battuta. Ci crede davvero. Lo ha sempre considerato il suo successore naturale, oltre che il suo miglior allievo. E chissà con quale dispiacere (nonostante i pareri pro-renziani di alcuni suoi influenti amici, primo fra tutti Confalonieri, grand commis di Mediaset) gli voterà contro nel referendum del 4 dicembre.
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