“La parola necessaria”, un ricordo di Primo Levi
Trent'anni fa moriva suicida a Torino Primo Levi. In questa pagina vi proponiamo un viaggio nelle teche della Radiotelevisione svizzera alla riscoperta di uno degli autori più importanti, e necessari, del Novecento.
La scrittura testimoniale è la sola scrittura necessaria. Dell’altra letteratura si può fare a meno, ma di quella testimoniale, no. Grazie ad essa, infatti, ciò che è accaduto viene sottratto all’oblio e assume i connotati dell’esistente, della memoria e della storia.
Sono 30 anni che Primo Levi non c’è più, eppure ancora oggi per conoscere l’orrore della Shoah, il crimine atroce della politica eugenetica e antisemita messa in atto dal Nazionalsocialismo (applicata dapprima sugli storpi, i monchi, i “non compiuti”, poi estesa agli zingari, ai criminali e agli ebrei tutti intesi come razza) bisogna leggere Se questo è un uomo, scritto fra il 1945 e il 1947; ancora oggi per capire lo smarrimento e il male oscuro dei sopravvissuti nella loro lunga marcia di ritorno dall’estremo lembo d’Europa incenerito dalla guerra, bisogna leggere La Tregua (1963).
I libri di Primo Levi sono libri necessari. Lui stesso ne è cosciente, quando dice “Nelle mie pagine non c’è nulla di superfluo”. La loro necessità è triplice.
Innanzitutto assolvono ad una necessità storica, quella di fare chiarezza sul più grande peccato compiuto dall’uomo sull’uomo.
In secondo luogo ottemperano ad una necessità culturale ed educativa, auspicando la nascita di una nuova coscienza che, traendo insegnamento dagli errori del passato, non contempli mai più l’affacciarsi di una simile e inaudita follia.
In terzo luogo rispondono a una necessità psicologica dell’autore, il quale (in quanto sopravvissuto) cerca, attraverso la sua testimonianza, di sanare almeno in parte la crudeltà di cui è stato vittima: “Dopo di allora, ad ora incerta, quell’agonia ritorna, e finché la mia orrenda storia non viene narrata sento il cuore bruciarmi nel petto” (citazione dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, che Levi, non a caso, mette in epigrafe al suo ultimo libro I sommersi e i salvati).
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Incontro con Primo Levi (di Piero del Giudice)
Di fronte a queste tre necessità, tutte ugualmente urgenti ed improrogabili, spiace osservare che solo la prima abbia fatto breccia nell’opinione pubblica. La seconda, la più importante, che invoca un nuova coscienza e convivenza sociale, viene invece costantemente negata, per colpa di un razzismo strisciante, di una xenofobia mai completamente dismessa (se è vero, come è vero, che l’epiteto ebreo viene ancora oggi usato in termini razzisti e discriminatori) e per colpa di un revisionismo malevolo e fazioso, che giunge addirittura a negare la memoria di milioni di creature cancellate dalla storia.
Queste tendenze xenofobe e negazioniste rappresentano una crudeltà nella crudeltà per chi ha vissuto l’olocausto. “Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza?”, si chiede Levi nel suo ultimo libro, quasi incredulo che, nonostante le testimonianze così chiare e agghiaccianti, il mondo non avesse capito, o voluto capire o peggio ancora non avesse creduto all’orrore dell’Olocausto. E ancor più disperato ribadisce: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.
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Intervista (di E.Lombardi)
L’eventualità che l’orrore possa manifestarsi di nuovo, ma anche e soprattutto il fatto che la scrittura testimoniale, per quanto necessaria, non è in grado di cancellare l’orrore, di colmare interamente l’ulcera aperta nell’animo di chi l’ha subito, queste due cose insieme sono probabilmente la causa del dissesto psicologico in cui Levi sprofonda. Maestro di limpidezza razionale e di discrezione, scrittore sobrio, pacato, capace di testimoniare senza rancore i più grandi orrori della storia del Novecento, Primo Levi si suicida all’età di 68 anni, lasciandosi cadere nella tromba delle scale del palazzo dove abita nel centro di Torino (l’11 aprile 1987).
Sopravvissuto all’Olocausto, Levi non sopravvive alla disperazione fisica, morale e psicologica che l’Olocausto genera dentro di lui. Un suicidio in cui riecheggia l’orrore della storia ma anche il senso di impotenza di fronte a una società che sembra non voler ricordare: “questo pensiero (“se anche raccontassimo, non ci crederanno”) affiora in forma di sogno notturno”. Sogno che inghiotte Primo Levi, senza ritorno.
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