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Autostrade: l’Europa boccia le concessioni “eterne”

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di Giorgio Ragazzi (LaVoce.info)

La nuova direttiva europea 23/2014 sull’aggiudicazione dei contratti di concessione – da poco pubblicata – ha l’obiettivo di coordinare le disposizioni legislative e amministrative degli Stati membri. E introduce nuovi criteri rilevanti anche per la questione aperta dei rinnovi delle nostre concessioni autostradali: per esempio, le soluzioni previste dall’articolo 5 del decreto “sblocca Italia” devono ritenersi superate.

Il cambiamento più rilevante riguarda la durata delle concessioni: la direttiva stabilisce che dovrebbe essere limitata per evitare la preclusione dell’accesso al mercato e restrizioni della concorrenza (cioè quella che gli economisti chiamano “concorrenza per il mercato”). Concessioni di durata superiore a cinque anni possono essere giustificate se indispensabili per consentire al concessionario di recuperare gli investimenti previsti, ma anche in tal caso ci si dovrebbe limitare al periodo in cui si può ragionevolmente prevedere che il concessionario recuperi gli investimenti effettuati e ottenga un ritorno sul capitale investito in condizioni operative normali.

Questi due principi sembrano escludere del tutto le proroghe per periodi molto lunghi, come venivano ipotizzate sulla base dell’articolo 5 dello “sblocca Italia”Collegamento esterno.

Il caso forse più eclatante è quello della Autobrennero, un’autostrada “matura” per la quale non si prevede la necessità di investimenti aggiuntivi rilevanti: qui veniva ipotizzata una proroga di ben 31 anni, contro un rilevante pagamento iniziale. Lo Stato avrebbe voluto “far cassa” subito, vendendo in sostanza alla concessionaria il diritto di esigere pedaggi per i successivi trent’anni.

Questo tipo di operazione sembra oggi precluso: non solo non si dovrebbero fare proroghe, ma la concessione dovrebbe essere rimessa a gara per una durata molto limitata, forse attorno ai cinque anni, in modo da poterla riaprire periodicamente alla concorrenza e ottenere così condizioni più favorevoli per gli utenti.

Considerazioni analoghe valgono per le proroghe ipotizzate per il gruppo Gavio, in particolare per la Torino-Piacenza che scadrà nel 2017 e per la quale pure non è prevista la necessità di nuovi rilevanti investimenti.

A chi tocca il rischio operativo

La direttiva prevede anche che lo Stato possa “riappropriarsi” dell’infrastruttura a fine concessione, affidandone la gestione a una società pubblica, senza gara. Sarebbe la soluzione preferibile, perché eliminerebbe finalmente la rendita su queste concessioni, o almeno farebbe affluire alle casse pubbliche – e non a privati – i ricchi profitti che se nericavano. Non sarebbero richiesti nemmeno esborsi di finanza pubblica, almeno nei casi in cui gli indennizzi di subentro al vecchio concessionario fossero modesti e facilmente finanziabili dalla società pubblica a credito, sulla garanzia dei pedaggi futuri. Questa potrebbe limitarsi a gestire la finanza, senza assumere dipendenti, assegnando con gare separate le costruzioni, l’esazione, la manutenzione. Si avrebbero così i massimi benefici della concorrenza, grazie all’unbundling, pure previsto dalla nuova direttiva.

La direttiva asserisce poi che è caratteristica principale di una concessione il trasferimento al concessionario di un rischio operativo che comporta la possibilità di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati in condizioni operative normali. La disciplina dell’aggiudicazione di concessioni non sarebbe giustificata se l’amministrazione sollevasse l’operatore economico da qualsiasi perdita potenziale, garantendogli un introito minimo pari o superiore agli investimenti effettuati. Il rischio operativo dev’essere inteso come rischio di esposizione alle fluttuazioni del mercato sul lato della domanda o sul lato dell’offerta (se la fornitura di servizi non corrisponde alla domanda).

Il sistema concessorio in Italia, i criteri con cui vengono stabilite le tariffe, può dirsi consono a questo principio? Parrebbe proprio di no, se consideriamo che pur in presenza di un eccezionale calo del traffico di oltre il 10 per cento, nel 2012-13, i profitti delle concessionarie non sono diminuiti. Non parliamo poi del rischio sul lato dell’offerta: quando previsioni di traffico si rilevano assolutamente errate, come nel caso della Brebemi o della Asti-Cuneo, ecco che puntualmente si ricorre allo Stato per addossargli in vari modi le perdite.

La direttiva stabilisce poi che i criteri di aggiudicazione devono essere redatti in modo da evitare di restringere artificiosamente la concorrenza, in particolare mediante requisiti che favoriscano uno specifico operatore economico rispecchiando le principali caratteristiche delle forniture, dei servizi o dei lavori da esso abitualmente offerti.

La questione dei pedaggi

La direttiva nulla dice, né potrebbe, a proposito della determinazione delle tariffe o del livello di profitto da prevedere a favore del concessionario. Questo resta un problema tutto italiano.

Per contenere il continuo incremento dei pedaggi occorre agire in due direzioni: ridurre sensibilmente il tasso di profitto conteggiato nel calcolo delle tariffe alla luce del fatto che gli interessi a lungo termine sono ormai prossimi allo zero, e fare previsioni di traffico meno prudenziali, in modo che il concessionario debba davvero assumersi parte del “rischio traffico”.

Occorre poi fare chiarezza sulle previsioni di redditività dei nuovi investimenti. Se devono essere sempre pagati con incrementi di pedaggio (ed sono la principale causa di quegli incrementi) significa che si fanno investimenti che aumentano poco o nulla il traffico e i relativi introiti per il concessionario. Ma allora perché il ministero dovrebbe “assentirli”?

I piani finanziari sono secretati, ma si potrebbe almeno chiedere, per un minimo di trasparenza verso gli utenti chiamati a pagare, che il ministero rendesse noto il tasso di redditività previsto per nuovi rilevanti investimenti, sulla base del quale aggiusterà nel tempo le tariffe.

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