Civati lascia il PD renziano, fibrillazioni tra i dem
di Leonardo Spagnoli
Il lungo divorzio tra Pippo Civati e il Pd renziano, giunto oggi all’atto conclusivo, non costituisce certamente una sorpresa. Ma nel contempo le recenti vicende interne ai democratici che hanno accompagnato l’approvazione dell'”Italicum”, gettano una nuova luce sul dissenso apertosi tra i due personaggi che solo alcuni anni fa venivano indicati come i due rappresentanti di spicco di quella generazione di trentenni chiamati a riformare-rottamare il principale partito di centrosinistra.
Sia Renzi che Civati figurano infatti tra i promotori della Leopolda di Firenze, il congresso che nel novembre 2010 ha raccolto i rinnovatori che si opponevano alla nomenclatura imperante nel PD degli ex PCI-DS. Una stagione breve per Giuseppe Civati che si è ben presto distanziato dall’ex sindaco di Firenze, senza però confluire tra le file dei vari bersaniani-d’alemiani riuniti attorno a Cuperlo alle primarie del 2013.
Di fatto la stragrande maggioranza del partito, per lo meno all’interno dei suoi organi principali Direzione e Congresso, sta con Renzi e l’area minoritaria del dissenso, tra mal di pancia e dichiarazioni più o meno sincere di fedeltà alla ditta di bersaniana memoria, resta profondamente divisa in ogni passaggio cruciale nell’attività di governo. E il segretario-presidente del Consiglio, nonostante una discutibile scelta delle priorità temporali, sta portando a casa una parte delle riforme promesse, il cui impatto rischia di essere amplificato dai pur timidi segnali di ripresa dell’economia italiana.
E sullo sfondo resta ben presente quel clamoroso 41% raccolto dai dem alle regionali dello scorso anno, risultato mai raggiunto, né sognato dallo stesso PCI al suo massimo splendore ai tempi di Berlinguer. Un risultato ottenuto, e sostanzialmente confermato in grandi linee da recenti sondaggi, grazie alla conquista di vaste porzioni di elettorato moderato che vedono nel rottamatore l’uomo giusto per riuscire in ciò che ha fallito in 20 anni Berlusconi, vale a dire ridimensionamento del ruolo dei sindacati e marginalizzazione degli ex pci-ds.
Per quale motivo quindi le dimissioni di Civati dal gruppo democratico, che si sommano a quelle del mese scorso di Roberto Speranza da capogruppo alla Camera e ai 61 voti contrari all’Italicum, possono rappresentare in questo momento un segnale politico non del tutto trascurabile in questo delicato passaggio della legislatura. Proprio l’approvazione definitiva nei giorni scorsi alla Camera della riforma elettorale ha rafforzato e reso per certi versi autosufficiente, con le inevitabili ricadute nel dibattito interpartitico, il patto tra maggioranza dem e alfaniani. Intesa a suo tempo osteggiata dai civatiani e mal digerita da Bersani e compagni.
Le tensioni interne al PD, è sotto gli occhi di tutti, sono giunte a livelli di guardia e a questo punto sembra quindi sempre più complicato tenere assieme interessi e sensibilità così diverse. E la riorganizzazione e il probabile accorpamento attorno a un progetto politico dello schieramento politico a sinistra del PD – come potrebbe preludere la mossa di Civati – rischia di acuire le fibrillazioni tra i democratici facendo naufragare il sogno di Partito della nazione – così in un certo senso evocato in passato dalle esperienze della DC di De Gasperi, del Compromesso storico negli anni ’70 e dal CAF (il patto Craxi-Andreotti-Forlani della seconda metà degli anni ‘80) – che ciclicamente viene riproposto da qualcuno in Italia.
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