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Da dove inizia la “Buona scuola”

La riforma "porta a un bivio, da cui potranno emergere sostantive innovazioni oppure riaffermarsi una passività consuetudinaria" tvsvizzera

di Daniele Checchi (LaVoce.info)

I principi della riforma

Il disegno di legge n.1934 (più noto come “Buona scuola”) appena approvato definitivamente dalla Camera in forma di unico articolo, in apertura enuncia i principi ispiratori, tutti pienamente condivisibili: “innalzare i livelli di istruzione e le competenze delle studentesse e degli studenti, […] per contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali, per prevenire e recuperare l’abbandono e la dispersione scolastica, […] per realizzare una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva […]”.

Il modello organizzativo a cui si ispira la riforma è quello della attuazione della autonomia scolastica, che significa capacità di adattare l’offerta formativa al contesto locale alla luce delle costanti trasformazioni della realtà esterna. Non stupisce quindi che una più ampia autonomia richieda una maggiore e migliore capacità di direzione da parte dei dirigenti scolastici, il cui ruolo viene rafforzato.

I cambiamenti più importanti introdotti dalla legge sono almeno tre: inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici, miglioramento delle possibilità di progettazione.

La spesa in istruzione

La legge sancisce un’inversione di tendenza nella spesa pubblica in istruzione, in cui l’Italia risulta essere uno dei paesi europei con il più basso livello di risorse investite in rapporto sia al prodotto interno lordo, sia come quota finalizzata sul totale della spesa pubblica (l’8 per cento della spesa pubblica, secondo il recente rapporto Oecd Government at a glance, seguiti solo dalla Grecia al 7,8 per cento). Questo viene attuato attraverso un innalzamento della spesa dell’ordine di un miliardo e mezzo di euro all’avvio (e di tre miliardi e mezzo a regime) collegato all’immissione graduale in ruolo di circa 100mila nuovi insegnanti, oltre al rimpiazzo del turnover legato ai successivi pensionamenti.

L’aumento della spesa è indubbiamente un fatto positivo, che differenzia il governo di centro-sinistra dalle politiche dei tagli dei passati governi di centro-destra. E non stupisce altresì che questa maggior spesa si concentri sull’assunzione di personale, dal momento che l’istruzione è uno dei settori produttivi a più alta intensità di spesa in personale. Ma non solo: vengono stanziati fondi per incentivare il merito per gli insegnanti (200 milioni di euro annui), per l’incremento del fondo di funzionamento (123 milioni di euro nel 2015), per sostenere i consumi culturali degli insegnanti (con una card annuale di 500 euro per insegnante, pari a circa 400 milioni di euro), per incentivare i dirigenti (35 milioni a regime dal 2016) e per l’edilizia scolastica (oltre allo stanziamento per l’arricchimento dell’offerta formativa, incrementato in giugno di 40 milioni).

Quello che ha invece sollevato più di una perplessità sono i criteri di scelta del nuovo personale, di necessità imposti dalla spada di Damocle di migliaia di potenziali ricorsi dopo il pronunciamento della Corta di giustizia europea.

In un mondo ideale, sarebbe stato auspicabile una immissione graduale diluita nell’arco di cinque-dieci anni, con filtri basati sulle capacità accertate dei candidati e sulle esigenze didattiche delle scuole. Dove sarebbe quindi la domanda di competenze a regolare l’ingresso in ruolo e non l’offerta residua delle graduatorie a esaurimento. I meccanismi selettivi degli insegnanti finora in vigore mettevano un filtro (parziale) all’ingresso attraverso l’abilitazione, ma premiavano sostanzialmente l’anzianità d’iscrizione in lista di attesa. Il combinato dei due meccanismi applicati in sequenza nel tempo non porta necessariamente alla selezione dei candidati migliori, tanto più ora quando ci si prefigge di svuotare queste liste di attesa (in gergo indicate come Gae – graduatorie ad esaurimento). Il rischio (se non la certezza) è che questa operazione di assunzione immediata di un numero così elevato di docenti si trasformi nell’ennesima sanatoria ope legis che saturerà il fabbisogno di organico per il prossimo decennio, lasciando scoperte le cattedre le cui competenze sono fortemente richieste (per esempio tradizionalmente quelle di matematica, ma anche di economia o di informatica).

Prerogative dei dirigenti

Sul rafforzamento delle prerogative manageriali dei dirigenti scolastici si sono maggiormente concentrate le proteste sindacali degli insegnanti. Secondo la nuova legge il dirigente avrà a disposizione fondi per premiare l’impegno scolastico dei docenti (con attenzione alle scuole a maggior rischio educativo), potrà scegliersi un gruppo di insegnanti “collaboratori” nella funzione di governo della scuola (opzione di fatto già esistente attraverso la scelta dello staff e, in parte, delle cosiddette “funzioni strumentali”) e potrà scegliere i nuovi insegnanti da un bacino predefinito (creando quanto indicato, sempre in gergo, come organico dell’autonomia o funzionale).

Molte delle correzioni introdotte dal dibattito parlamentare hanno mirato a limitare queste prerogative: l’erogazione dei fondi incentivanti è stata trasferita a una commissione dove gli “incentivandi” hanno la maggioranza, la scelta dei nuovi insegnanti deve avvenire rispettando dei vincoli procedurali di trasparenza (pubblicità del fabbisogno di competenze in linea con il piano formativo triennale della scuola, pubblicità dei curricula dei selezionati).

Il vero nodo della vicenda sembra però legato alla attuazione del comma 93 (ebbene sì, questa nuova legge nasce come articolo 1 corredato di 212 commi) relativo alla valutazione dei dirigenti scolastici. Prevista originariamente come delega al governo e ricondotta nell’alveo della legge dal dibattito parlamentare, il summenzionato comma affronta il nodo del “chi controlla il controllore?” definendone le aree di valutazione (competenze gestionali e organizzative, capacità di leadership, miglioramento nel livello degli apprendimenti degli studenti) e i soggetti attuatori (ispettori e dirigenti ministeriali, organizzati in commissioni valutatrici su base regionale).

Resta però imprecisato il benchmark di riferimento della valutazione: saranno gli obiettivi che i dirigenti si sono di fatto auto-assegnati con i rapporti di autovalutazione, attualmente in fase di compilazione in via sperimentale in tutte le scuole italiane? Se così fosse (come appare probabile), assisteremmo a una rinuncia da parte ministeriale della proposizione dall’alto di obiettivi qualificanti (per esempio in materia di dispersione scolastica, di inclusione, così come di promozione delle eccellenze), che si tradurrebbe in un mancato esercizio della funzione di direzione.

Miglioramento delle possibilità di pianificazione e progettazione

Nel corso del percorso parlamentare il disegno di legge ha visto rafforzarsi la coerenza interna legata agli orizzonti temporali. A un sistema scolastico che era ormai abituato alla logica della “sopravvivenza quotidiana” è stata restituita la dignità di una pianificazione complessiva e di una progettazione didattica pluriennale. Non è infatti casuale che sull’orizzonte dei tre anni sia stata riallineata una serie di processi: la programmazione scolastica (in gergo Pof – piani dell’offerta formativa); l’assegnazione dei nuovi organici dell’autonomia; la valutazione degli esiti dei rapporti di autovalutazione a livello di istituto; l’assegnazione e la valutazione dei dirigenti scolastici; la cadenza dei concorsi per l’ingresso nella professione insegnante.

Insieme all’obbligo di assicurare alle scuole la certezza dei fondi a inizio anno, tutto questo reintroduce respiro nella attività di programmazione a livello di scuola, comunque sempre gestita nell’ambito degli organi collegiali. Dovrebbero quindi gradualmente scomparire (o almeno questo è l’auspicio) le situazioni emergenziali in cui ai genitori si chiedeva di sopperire alle carenze statali con l’acquisto di materiali didattici. Scuole che progettano su un orizzonte di almeno tre anni sono anche scuole che possono muoversi credibilmente sul territorio in rapporto con operatori pubblici e privati alla ricerca di ulteriori fondi o servizi. Non è quindi un caso che il decreto incoraggi la donazione di fondi alle scuole attraverso lo strumento della defiscalizzazione.

Almeno sulla carta, nel decreto ci sono tutte le premesse per un salto di qualità. I tagli degli allora ministri Gelmini-Tremonti segnalarono che i governi (e gli elettori di cui erano rappresentanti) non erano disponibili a sottoscrivere una delega in bianco al mondo della scuola, che protestò vivacemente e si attrezzò per sopravvivere. Oggi viene riaperta una prospettiva di risposta e crescita. Non è una delega in bianco, perché definisce una nuova modalità organizzativa e richiede una serie di verifiche in itinere (quelli che chiameremmo checks and balances). È una scommessa aperta che porta a un bivio, da cui potranno emergere sostantive innovazioni oppure riaffermarsi una passività consuetudinaria cui ci hanno abituato gli ingloriosi risultati del nostro paese nelle classifiche internazionali dei test scolastici.

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