Di Zanardi e di Clay Regazzoni, quando l’handicap diventa sfida
Enfasi, retorica, esaltazione patriottica. E' spesso merce abbondante, e a buon mercato, nel giornalismo. In particolare nel giornalismo sportivo. In tv dove l'immagine dell'impresa in diretta pretende reazioni immediate ed esalta anche chi la deve narrare; o sul cartaceo, che deve sopperire con una narrazione dai toni alti, che restituisca l'emozione di quel momento e dei suoi protagonisti. Insomma, l'iperbole è in generale cattiva consigliera del buon reporter. Non vorremmo cascarci. Ma un tantino ce la concederete di fronte ai "miracoli" (ecco, ci siamo) degli atleti delle Paralimpiadi - i Giochi olimpici degli atleti con disabilità fisiche -, anche di quelli che non ce la fanno a conquistare il podio dei medagliati.
Prendi Alex Zanardi, ex pilota che perse le gambe nel terribile incidente durante una gara automobilistica in Germania, mentre si trovava in testa, e rientrava in pista dopo una fermata ai box. Accadeva quindici anni fa, quindici furono i successivi interventi chirurgici, e porta la data del 15 settembre 2016 il giorno con i quotidiani che raccontano la sua leggendaria vittoria a Rio e che in prima pagina pubblicano la foto e delle lacrime di “questo bambino di cinquant’anni” che conquista il suo terzo oro. Specialità “handbike”, cronometro sui 20 km, piegato su una bici speciale spinta a forza di braccia, il corpo proteso per aiutare l’enorme sforzo degli arti superiori, e così per oltre ventotto minuti.
Da quel maledetto sabato di quindici anni fa (“il giorno in cui morì il pilota ma nacque il campione), Zanardi è stato l’uomo dalle mille vite. Imprese, racconti, conferenze, programmi televisivi. Tutto per dimostrare a sé stesso ci si può anche non arrendere a un episodio che bruscamente ti mette ai piedi di un muro apparentemente troppo alto, ostile, invalicabile. E che invece, dopo chissà quali sforzi anche intimi, lui ha scavalcato. E continua a scavalcare. Con una tenacia che che non si affloscia né con il passare degli anni né con i risultati extrasportivi e i successi mediatici che basterebbero ad appagarlo mille volte.
C’è Alex, e ci sono altre centinaia, altre migliaia. Dalla diciannovenne che grazie alle protesi vince nella spada pur avendo perso braccia e game (amputate a causa di una meningite quando aveva appena 14 anni), al giovane algerino impoverente che si impone nei 1.500 metri con un tempo migliore di quello del vincitore sulla stessa distanza all’altra Olimpiade – quelle delle celebrità sportive che hanno premi da nababbi e certo non da dilettanti. E, pensando anche e soprattutto agli ultimi, qui ha finalmente un senso la famosa battuta attribuita (pare erroneamente) a De Coubertin e all’importanza di partecipare più che di vincere.
Zanardi (che senza complessi denuncia come “anche lo sport paralimpico si lascia tentare dal doping”), lui insieme a tutti gli altri, ci aiuta a guardare con occhi diversi tutti i portatori di handicap, senza pietismi, senza compassione. E dovrebbe stimolare quei governi che, dopo l’immancabile tweed di patriottico orgoglio, dimenticheranno subito di fare quanto necessario per eliminare le barriere architettoniche e no che devono superare quotidianamente. Senza costringerli continuamente a pubbliche umiliazioni e contestazioni. Lo fece anche Clay Regazzoni. Che una volta si trovò di fronte ad un’entrata principale ma invalicabile per la sua carrozzella. Gli proposero di farlo passare da un’altra porta secondaria. Si rifiutò. E fece benissimo. Non molto tempo dopo, quell’entrata venne risistemata per consentire l’accesso ai disabili come lui. Ma se non fosse stato il campione che era?
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