La potenza del sogno, 25 anni dopo
Il 31 ottobre del 1993 il mondo del cinema perdeva uno dei suoi rappresentanti più illustri, Federico Fellini. Un ricordo del grande regista dagli archivi della Radiotelevisione Svizzera.
Fra sogno e realtà, Federico Fellini dà vita ad un universo immaginifico così radicato dentro un’epoca da farne un maestro del Novecento. In circa 40 anni di attività, consegna all’immaginario collettivo vicende e figure memorabili in film quali I vitelloni (1953), La dolce vita (che nel 1960 segna l’apice, forse, della sua carriera); e poi ancora 8 e ½ (1963), Amarcord (1973), E la nave va (1983) fino all’ultimo La voce della luna del 1990. Nel 1993, in uno stato di salute già precario, ottiene il suo quinto Oscar, quello alla carriera, che giunge pochi mesi prima della morte.
Nato a Rimini il 20 gennaio 1920 e morto a Roma il 31 ottobre 1993, Fellini fa parte di quel piccolo gruppo di maestri del cinema che contempla Kurosawa, Bergman, Buñuel e Tarkowskij.
Osannato in patria come un redivivo Michelangelo, genio post litteram del Rinascimento, Fellini produce film unici nel loro genere, frutto di una forza creatrice morbida, colorata, senza schemi fissi, pronta a salire sulle ali del sogno, a cavalcare lo scintillio della fantasia e a perdersi fra le nuvole rosa dell’immaginazione. Perché Fellini, come Amleto, è convinto che tra cielo e terra ci siano infinite cose che la filosofia ignora. Ovvero, in altre parole, è convinto che la realtà sia percorsa da messaggi, miracoli, visioni, dèmoni, santi, scintille, archetipi che vale la pena ascoltare.
Ed è questa realtà amplificata che Fellini accoglie nelle sue pellicole, in contrasto con la realtà misera, svuotata, falsa che la civiltà dei consumi propina ai propri cittadini. Mirabile in questo senso è l’incursione tragica e grottesca che Fellini compie in Ginger e Fred, allorché ritrae la società della televisione come una società produttrice di simulacri, falsità e nichilismo, nonché colpevole di annientare l’immaginazione.
In fondo, tutto il cinema di Fellini, da la Dolce vita a La voce della luna, passando attraverso 8 e ½ e Roma, può essere letto come un controcanto alla società dei consumi, malata di nichilismo, di minimalismo e freddezza.
A questa società (costruita su desideri fittizi e superficiali) Fellini contrappone un cinema caratterizzato da una fantasia incessante e aurorale, una fantasia che parla un linguaggio universale, simbolico, un linguaggio talmente potente che è in grado di comunicare direttamente con l’inconscio degli spettatori, alimentandone il sogno, i sentimenti, le emozioni. E così, grazie a questo cinema onirico, Fellini restituisce senso ad una realtà corrotta e svuotata ed evita di lasciarsi assorbire dall’alienazione che serpeggia ovunque.
Si pensi, a questo proposito, alla scena delle motociclette che attraversano la città eterna nella pellicola Roma: queste motociclette rappresentano la calata degli Unni, colpevoli di imbarbarire la quotidianità, la quale manifesta la propria ferita e invoca un bisogno irrefrenabile di riscatto. E da dove viene il riscatto? La terapia suggerita da Fellini (affinché la realtà alienata possa riacquisire senso e pienezza) sta nell’auscultazione dell’inconscio, nelle rielaborazione dei sogni e nella liberazione dell’energia creatrice, grazie alla quale è possibile riconnettere il destino personale a un disegno più ampio, eterno e universale.
Fellini per rappresentare questa dimensione amplificata si serve dell’immagine della donna, che incarna l’elemento salvifico, l’elemento dell’accoglienza, della pienezza, della dilatazione e dell’interezza. La donna, nel cinema felliniano, è più seno che volto, più madre che donna, più grembo che testa.
Perché la realtà che Fellini vuole descrivere, e in cui lui si ritrova, è una realtà totale, piena di amore, senza limiti, imprevedibile, pittoresca, informe. In una parola: la realtà embrionale, antecedente la creazione, dove tutto è possibile e le cose sono in pace, sospese nella loro illusione materializzata. Una realtà senza la quale Fellini si sente vuoto: “Fuori dal teatro di posa, dalle luci, dal set, dalla materializzazione di fantasie e sogni, fuori da quell’atmosfera mi sento un pochino vuoto, mi trovo subito in esilio”.
Ritorno al grembo, reintegro del sogno e dell’inconscio: grazie a questi mezzi Fellini sconfigge la vuotezza quotidiana. E lo fa non con l’occhio torvo e strabico di chi è abitato e ossessionato dai propri deliri, né tantomeno con l’occhio del guru che pretende di sciogliere gli enigmi, ma con l’occhio sorridente, di chi conosce il regno della notte, quel regno dove la realtà si ricompone, ancestrale, innocua, totale.
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