I colloqui di pace di Ginevra e le irrisolte questioni geopolitiche della crisi siriana
di Dario Fabbri (LIMES)
I colloqui di pace sulla Siria, previsti per venerdì prossimo a Ginevra, dovrebbero stabilire che le parti in lotta (attori locali e patron esterni) sono soddisfatte o esauste per quanto raggiunto sul terreno. Ma, come dimostrato dalle difficoltà incontrate dalle Nazioni Unite soltanto nel selezionare gli invitati, la situazione è tuttora troppo convulsa per un compromesso che contempli le cause geopolitiche del conflitto. Mentre resta da sciogliere il nodo dello Stato Islamico.
Veti incrociati, risentimenti reciproci e differenti percezioni della crisi nelle ultime settimane hanno notevolmente complicato il lavoro dell’inviato speciale dell’Onu sul dossier siriano, l’italiano Staffan de Mistura, incaricato di compilare l’elenco dei partecipanti al negoziato. In linea teorica lo schema sarebbe alquanto semplice: da una parte il governo di Damasco, dall’altra l’eterogeneo fronte dei “ribelli”. Con l’esclusione, per ragioni di credibilità e di opportunità politica, dello Stato Islamico e di Jabhat al-Nuṣra, il ramo siriano di al-Qaida. Obiettivi dichiarati: instaurare un diffuso cessate-il-fuoco; porre fine ai numerosi assedi, così da consentire l’accesso della popolazione locale a cibo e medicinali. Nulla dunque che riguardi il futuro assetto del paese o che risolva le questioni geopolitiche che hanno determinato la guerra civile. D’altronde perfino traguardi tanto modesti (certamente rilevanti dal punto di vista umanitario) paiono al momento assai impegnativi.
Ad alimentare la reticenza delle principali potenze esterne sono gli interessi contrapposti e la fluidità delle operazioni belliche. Consapevole di non poter centrare in Siria uno straordinario risultato militare, se non l’ulteriore puntellamento del regime di Damasco, la Russia è disposta a considerare un accordo che lasci in sella il regime baathista e riconosca le istanze della maggioranza sunnita. Ma intende danneggiare la Turchia sostenendo la causa dei curdo-siriani e confermare il proprio nyet finché gli Stati Uniti non ammorbideranno la loro posizione in merito all’Ucraina, vera questione strategica nei calcoli di Mosca. Così Arabia Saudita e petromonarchie del Golfo pretendono un cambio di regime a Damasco o in alternativa la nascita di una confederazione siriana ad impronta sunnita. L’Iran persegue invece il mantenimento dell’Alauistan e il controllo da parte di al-Assad delle principali città del paese. La Turchia vorrebbe estendere la propria influenza su tutta la Siria ed è sicura di poter determinare la caduta del califfato e trascinare gli Stati Uniti nel conflitto. A loro volta gli americani propendono per la sopravvivenza delle istituzioni baathiste e vorrebbero persuadere i turchi a spendersi contro lo Stato Islamico.
Ne derivano le attuali schermaglie in merito alla scelta dei negoziatori. Con l’Arabia Saudita che riconosce lo High Negotiations Committee, galassia composta dai principali insorti sunniti, come unico rappresentante dell’opposizione e che chiede la fine degli assedi da parte dei governativi prima di consentire ai “suoi” di partecipare. Mentre la Russia spinge per la presenza dei curdi del Partito dell’Unione Democratica e Ankara minaccia di boicottare i colloqui se proprio questi saranno a Ginevra.
Distanze significative tra le parti che certamente impediranno al negoziato di porre fine alla guerra civile. Almeno finché i principali sfidanti non accetteranno il nuovo status quo prodotto dai combattimenti. Allo stesso modo il summit di Ginevra lascerà irrisolta la questione relativa allo Stato Islamico, convitato di pietra in cerca di uno o più soggetti disposti a combatterlo sul terreno ed in grado di sostituirsi ad esso.
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