I primi passi della “Buona scuola”
di Daniele Checchi, LaVoceInfo
Il Consiglio dei ministri ha varato i primi provvedimenti sulla scuola. Sono tre sono le questioni che avranno gli effetti maggiori sul suo funzionamento: gestione del personale insegnante, rigidità degli insegnamenti e ruolo dei dirigenti. Per tutte e tre restano aperti i problemi di attuazione.
La gestione degli insegnanti
Il Consiglio dei ministri del 12 marzo ha varato un disegno di legge che rappresenta il primo punto di ricaduta del progetto della “Buona scuola”, lanciato a settembre. Per quanto è dato sapere dalle slide visibili in rete e dai resoconti giornalistici, solo alcuni dei temi preannunciati sono stati recepiti ora, mentre altri troveranno forse attuazione in disegni di legge futuri. I nostri commenti si fermano quindi ad alcuni dei dieci punti illustrati in conferenza stampa.
Tre sono le questioni sostanziali, a più alto impatto sul funzionamento delle istituzioni scolastiche (e anche sul bilancio pubblico nel medio-lungo periodo).
La prima riguarda la gestione del personale insegnante. È riconosciuto da tutti che l’attuale assetto di determinazione degli organici della scuola (basato sulle previsioni di iscrizione di febbraio, che definiscono il cosiddetto organico di diritto, cui fa seguito l’assestamento a seguito delle iscrizioni effettive a luglio, che fissano l’organico di fatto) non funziona: troppo rigido, finisce spesso con nominare in ritardo personale temporaneo su un numero eccessivamente elevato di classi.
C’è poi da ricordare che una delle ragioni che ha messo in moto il progetto della Buona scuola è stata la previsione (poi confermata) della condanna del governo italiano davanti alla Corte di giustizia dell’Aja per “eccessivo ricorso ai contratti temporanei” nell’assunzione degli insegnanti. La via d’uscita proposta dal governo è in linea di principio brillante: risolvere l’eccessivo viavai sulle cattedre immettendo in ruolo i precari iscritti nelle graduatorie a esaurimento. In questo modo si stabilizza il personale docente e si tamponano i potenziali ricorsi per l’immissione forzosa di tutti coloro che abbiano insegnato per più di tre anni anche non consecutivi. E a questo scopo sono stati inseriti fondi per 1,5 miliardi nella legge di stabilità.
La soluzione incontra però una serie di problemi attuativi. Il primo è la carenza di informazioni elementari: l’amministrazione pubblica non è in grado di quantificare con precisione quanti siano i potenziali ricorrenti a seguito della sentenza della Corte di giustizia. I numeri che circolano oscillano tra 130 e 160mila. Oltre che per gli studenti, in Italia manca anche una anagrafe dei docenti della scuola (che invece esiste per l’universitàCollegamento esterno). Ad esempio il ministero dell’Istruzione conosce solo parzialmente i titoli di studio e la carriera pregressa del proprio personale (nonostante alcune lodevoli sperimentazioni siano state promosse dall’Ufficio statistico dello stesso Miur). Per la precisione, esistono gli atti amministrativi (cartacei) corrispondenti alle varie voci, ma si tratta di informazione ancora poco processabile informaticamente.
L’organico funzionale
Il secondo problema attuativo è il mismatch, l’imperfetta coincidenza tra le caratteristiche della domanda e dell’offerta. Nessuno è in grado di dire se le aree (didattiche o territoriali) dove gli incarichi temporanei sono più diffusi siano le stesse dove maggiore è la presenza di persone con più lunga esperienza di precariato. A titolo di esempio, si sa che gli incarichi annuali sulle cattedre di matematica sono più frequenti perché le graduatorie sono vuote. Non ci sarebbero quindi precari da stabilizzare per ricoprire queste cattedre, su cui si sarà costretti a continuare a fare ricorso a incarichi temporanei.
Il sistema italiano delle classi concorsuali, che affligge in egual misura scuola e università, impedisce un utilizzo più flessibile del corpo docente. Quando l’allora ministro Gelmini diminuì gli orari d’insegnamento nelle scuole per poter ridurre gli organici, contribuì ad alimentare la platea dei precari, particolarmente nelle materie soppresse o ridimensionate. Quando gli attuali ministri Giannini e Franceschini plaudono alla reintroduzione della musica e della storia dell’arte nell’insegnamento delle scuole italiane, prendendo atto nel contempo che a legislazione vigente a questi insegnanti precari da stabilizzare non si può che far insegnare la materia per cui molto probabilmente sono abilitati.
Il nostro paese è caratterizzato da pratiche didattiche centrate molto sui contenuti disciplinari (sei un bravo insegnante se conosci bene la materia) e poco sulle capacità trasversali (quali stimolare la capacità di problem solving degli studenti). Questo rende gli insegnanti poco fungibili tra loro: un insegnante di italiano non insegnerà storia dell’arte, o uno di matematica non insegnerà fisica (o viceversa), perché ciascuno di loro potrà dichiararsi incompetente nell’altra materia. È chiaro che questo richiede flessibilità e disponibilità da parte degli insegnanti nella progettazione didattica su contenuti per i quali fino a oggi non hanno esperienza didattica.
Su questo terreno, che è squisitamente materia di contrattazione sindacale, il decreto legge introduce due elementi che possono essere anticipatorii di ulteriori interventi futuri.
Il primo è quello dell’introduzione di un organico funzionale. Per come è stato presentato, si tratterebbe di un gruppo di insegnanti in sovrannumero rispetto all’organico richiesto per la didattica ordinaria, assegnato non a una singola scuola ma a un gruppo di istituti con l’obiettivo di coprire le assenze temporanee dei colleghi che svolgono la didattica ordinaria (rendendo quindi superata la figura del supplente nominato su cattedre temporaneamente scoperte) nonché di promuovere progetti aggiuntivi (lotta alla dispersione, potenziamento di alcune aree disciplinari, promozione dei progetti di alternanza scuola-lavoro). Questi insegnanti, perciò, dovrebbero essere per definizione fungibili su un ampio spettro di mansioni possibili. In quanto tale il ricorso a organici funzionali permette di immaginare formule organizzative delle scuole molto più creative. Si provi a immaginare una scuola come un gruppo di insegnanti che eroghi un certo numero di ore complessive di didattica, scegliendo liberamente i contenuti formativi (oltre che la loro articolazione temporale). Si romperebbe così il legame tra insegnante e cattedra, a beneficio dell’adattamento dei contenuti ai discenti. Occorrerebbe ovviamente contemplare alcune forme di indirizzo e di verifica a posteriori dei livelli di apprendimento, ma la forma organizzativa attuale delle scuole ne uscirebbe completamente rivoluzionata.
Il ruolo dei dirigenti
E qui arriviamo al terzo punto sollevato dalla riforma, che è quello del ruolo dei dirigenti scolastici. Quanto maggiore diventa la fungibilità dei docenti (qualcuno malevolmente la chiamerebbe flessibilità) tanto più rilevante diventa il ruolo del dirigente che deve coordinare il potenziale didattico presente nella sua scuola.
Molti dirigenti scolastici non sono a mio parere in grado di svolgere il ruolo di indirizzoCollegamento esterno, perché non sono stati selezionati sulla base di queste competenze. Tuttavia, nella presentazione del disegno di legge si parla di presidi che “potranno formare la loro squadra”. Non è chiaro come sia possibile combinare scelta dei dirigenti e garanzia del ruolo degli insegnanti, senza che esista un meccanismo di aggiustamento quando domanda e offerta di nuovo non coincidono. Cosa succede se due o più dirigenti si contendono lo stesso insegnante? Possono fargli offerte al di sopra della retribuzione contrattuale (o in modo equivalente offerte di riduzione del carico orario)? E all’estremo opposto: cosa accade di un insegnante così scadente che nessun dirigente voglia in squadra, e che pure sia di ruolo e che quindi debba garantire la propria prestazione didattica? Possibile immaginare la fuoriuscita verso altre amministrazioni pubbliche, ma attraverso quali strumenti contrattuali o legislativi attuarlo non è al momento chiaro.
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