Il dilemma della flessibilità in uscita
di Vincenzo Galasso (LaVoce.info)
Con la sentenza della Corte Costituzionale, che al tie-break ha bocciato la sospensione dell’indicizzazione voluta dal governo Monti per gli assegni previdenziali più elevati (quelli di tre volte superiori al minimo), la partita delle pensioni è ritornata sul tavolo del governo.
Dopo solo 18 giorni, il governo Renzi ha fatto la prima mossa, approvando un decreto che prevede la restituzione una tantum di 2 miliardi e 180 milioni a 3,7 milioni di pensionati. Il governo si è mosso con rapidità tra vincoli giuridici e vincoli di bilancio. Ha immolato il così detto “tesoretto”, ma ha scelto di non aprire l’intera voragine nei conti pubblici che un’applicazione ampia della sentenza della Corte Costituzionale avrebbe creato (secondo alcuni calcoli oltre i 12 miliardi di euro). Infatti, la restituzione prevista dal decreto è solo parziale. Non viene restituita tutta l’indicizzazione pregressa e ne vengono completamente esclusi circa 650mila pensionati – quelli cioè con un assegno di sei volte superiore al minimo. Da un punto di vista economico è una scelta condivisibile. In pratica il governo Monti aveva deciso di tassare con un’aliquota pari al 100% l’indicizzazione per tutti i percettori di pensioni di tre volte superiori al minimo. Il governo Renzi mantiene l’aliquota al 100% per chi ha una pensione di sei volte superiore al minimo, e la riduce per tutti gli altri, introducendo quindi un elemento di progressività nella tassazione dell’indicizzazione. Da un punto di vista politico, malgrado il tono di alcune dichiarazione, la partita si è rivelata ancora più semplice. Aumentare gli assegni previdenziali è da sempre un buon viatico verso un elettorato anziano come quello italiano. Doversi muovere a causa di un vicolo giuridico imposto dalla (ottuagenaria) Corte Costituzionale consente di non attribuirsi colpe agli occhi dell’elettorato più giovane. L’elemento di progressività introdotto nel decreto testimonia poi lo sforzo di equità intragenerazionale, ed infine l’esistenza del tesoretto consente anche di non dover tagliare le risorse altrove – con buona pace di chi sul tesoretto voleva metterci le mani.
Ben più complessa, sia da un punto di vista economico che politico, si presenta invece la partita della flessibilità in uscita.
Partiamo dall’aspetto economico. Chi ha già un po’ di primavere, e la memoria lunga, ricorderà che la flessibilità in uscita era prevista già dalla riforma Dini del 1995 per coloro i quali sarebbero andati in pensione con il sistema contributivo. In questo caso, l’età minima di pensionamento era fissata a soli 57 anni (è utile ricordare che nel 1995 il 50% degli lavoratori italiani nel settore privato a 58 anni era già in pensione!). Ma il pensionamento anticipato, rispetto all’età normale di 65 anni, comportava una forte riduzione, calcolata in base a coefficienti attuariali, della pensione annua. Per contenere la crescita della spesa previdenziale, le riforme degli anni successivi hanno progressivamente ridotto questa flessibilità in uscita sia per chi è andato in pensione con il retributivo (quasi tutti) che con il contributivo (fin qui ben pochi). Nel 2014, l’età media di pensionamento per i lavoratori del settore privato è così arrivata a 62,5 anni.
Come nel 1995, anche oggi ci sono buone ragioni – di salute, familiari, economiche – per credere che un po’ di flessibilità in uscita potrebbe dare dei vantaggi ai lavoratori. Ma è meglio non farsi troppe illusioni. Affinché il sistema previdenziale continui ad essere sostenibile il pensionamento anticipato deve essere associato a forti riduzioni dei benefici previdenziali, che molti studi calcolano tra il 6% e l’8% annui. Inoltre l’età della flessibilità disegnata nel 1995 dalla riforma Dini (57-65 anni) andrebbe aggiornata per tener conto dell’aumento dell’aspettativa di vita, che in questi vent’anni può essere stimato attorno ai 4 anni.
La flessibilità in uscita piace molto anche a sindacati ed imprese, tra le quali molte sarebbero contente di spingere i lavoratori più anziani – e magari meno produttivi – verso la pensione anticipata. E’ un fenomeno ben noto, già ampiamente utilizzato in passato, quando generose pensioni di anzianità furono conferite ai pensionati-baby, e che ha contribuito ad aumentare enormemente la spesa previdenziale durante gli anni 80. Tuttavia anche l’introduzione di una flessibilità in uscita “giusta” (ovvero attuarialmente equa), nel breve periodo incrementerebbe la spesa previdenziale, poiché aumenterebbe il numero delle pensioni immediatamente erogate, seppur rendendole meno generose. E’ l’esatto contrario di quanto fatto con successo in gran parte delle riforme dal 1995 ad oggi, quando si è provato a chiudere le finestre che conducevano al pre-pensionamento proprio per ridurre la spesa previdenziale corrente. Dal punto di vista politico è difficile credere che un governo a cui stanno a cuore i giovani possa voler aumentare nuovamente la spesa corrente in pensioni. Soprattutto quando non c’è neanche la Corte Costituzionale a cui ubbidire.
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