Il fragile cessate-il-fuoco siriano conferma le mutate priorità americane e l’efficacia delle manovre russe
di Dario Fabbri (LIMES)
La tregua concordata da Washington e Mosca non risolve la guerra civile siriana. Piuttosto, come ogni tregua, si limita a certificare i rapporti di forza esistenti sul terreno. Mentre consente agli analisti di studiare obiettivi e tattiche delle principali potenze coinvolte. A partire da Stati Uniti e Russia.
Secondo il (segreto) testo redatto il 9 settembre, il cessate-il-fuoco è iniziato lunedì scorso e, in caso di continuata attuazione, la prossima settimana si tramuterà in un’azione congiunta russo-americana contro lo Stato Islamico e Jabhat Fatah al-Sham, l’erede di Jabhat al-Nusra. Con lealisti (compresi iraniani ed Hezbollah) e ribelli costretti ad astenersi dalle ostilità. Aldilà del lodevole tentativo di interrompere i combattimenti, il dichiarato intento di agire esclusivamente contro i “jihadisti”, attori minori nell’attuale guerra civile, segnala la natura artificiale del compromesso. Obiettivo ultimo delle nazioni coinvolte non è mai stato sconfiggere lo Stato Islamico o i qaidisti, organizzazioni militarmente secondarie sebbene portatrici di alcune istanze etnico-popolari. Quanto insidiare la zona di influenza delle potenze esterne, oppure aggiudicarsi il controllo della cosiddetta Siria utile.
L’annunciato ricalibrarsi dell’azione bellica palesa la solidità delle conquiste ottenute sul terreno dal regime di Damasco e dai suoi alleati russi, iraniani e libanesi che – affatto casualmente – hanno sottoscritto il documento solo dopo aver accerchiato Aleppo. Putin ha raggiunto lo scopo di conservare il cliente baathista e la propria base navale sul Mediterraneo. Ai cosiddetti ribelli “moderati”, sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar, di fatto è imposta la sconfitta. Almeno ufficialmente gli Stati Uniti smettono di sostenerli, prefiggendosi di attaccare Jabhat Fatah al-Sham, la formazione militarmente più capace del fronte insurrezionale. Il regime di al-Assad sopravvivrà alla guerra.
Del resto per gli americani la Siria è sempre stato un mezzo, mai un fine. Inizialmente l’azione statunitense mirava a destabilizzare Damasco per costringere il patron iraniano al tavolo delle trattative. Raggiunto tale esito già nella primavera del 2013, da allora per Washington la crisi siriana ha smesso di rivestire reale importanza. Intenzionato a confezionare la propria eredità geopolitica, in questa fase Obama punta invece a minare la tenuta dello Stato Islamico, così da presentare all’opinione pubblica un successo di natura cosmetica. Lasciando volentieri a russi ed iraniani l’incombenza di puntellare il regime baathista, da tempo considerato dalla Casa Bianca il male minore. Mentre turchi e sauditi, che viceversa pensavano di rovesciare al-Assad, si trovano ora costretti a combattere battaglie di perfetta retroguardia. Con Ankara impegnata ad impedire ai curdi del Rojava di allacciarsi al Kurdistan interno e Riyad attiva nel mantenere in vita Jaish al-Islam, agente per procura foraggiato per entrare trionfalmente a Damasco.
Proprio l’insoddisfazione di insorti e potenze esterne potrebbe causare il deragliamento del cessate-il-fuoco. Specie se alcune formazioni dei ribelli dovessero rifiutarsi di rinnegare l’ex Jabhat al-Nusra, con cui in questi anni hanno condiviso moltissime battaglie. Sauditi, turchi e qatarini potrebbero ancora una volta aizzare le ostilità, nel tentativo di inficiare lo status quo ed aumentare il proprio margine negoziale. Mentre gli stessi russi potrebbero ostacolare l’azione americana qualora non ottenessero alcuna concessione sul fronte ucraino, l’unico dossier cui il Cremlino riconosce importanza cruciale. Provocando il nuovo mescolarsi delle carte.
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