La “buona scuola”, e i quattro secoli necessari alla sua digitalizzazione
di Aldo Sofia
Torti e ragioni ci saranno sui due fronti (quello del governo, e quello dei contestatori) ma nei cortei di protesta contro la riforma scolastica di Renzi mancava un cartello. Un cartello con la scritta “437”. Sono gli anni che, di questo passo, occorreranno alla scuola italiana per mettersi al passo con la digitalizzazione di tutti gli Istituti pubblici. Un ritardo epocale (è l’allarme di un dossier di TuttoSCUOLA), ritardo che ancora una volta inchioda il Bel Paese fra i fanalini di coda fra quelli più industrializzati dell’Unione Europea.
Eppure, in una trentina di anni, da destra a sinistra, altisonanti promesse, fermissimi impegni, serissimi annunci sull’imminente rivoluzione informatica non si contano più. Il primo è addirittura del 1988, quando un dimenticato ministro dell’istruzione di nome Giovanni Galloni assicurò che la digitalizzazione delle scuole era inevitabile.
Poi, in vertiginosa successione, titolari del dicastero e primi ministri si sono immancabilmente lanciati nel giuramento di rito: Luigi Berlinguer lancia lo slogan “libro e tastiera, un allievo un computer”; Amato lanci l’idea di un “prestito d’onore” per consentire almeno a 600 mila allievi di acquistare un pc “di buon livello”; Berlusconi lancia la campagna elettorale delle tre “i”, Internet-Inglese-Impresa; Letizia Moratti la spara più grossa assicurando che ad essere connesse dono ormai “la totalità delle superiori, il 96 per cento delle medie, e il 91 per cento delle elementari”; Lucio Stanca non è da meno, garantendo che “ormai il 68 per cento delle famiglie con figli in età scolare possiede un computer ponendo l’Italia al terzo posto in Europa”. Ed eravamo solo nel 2005. Dobbiamo continuare? Per esempio con Mariastella Gelmini, che garantì un mini pc per tutti gli studenti al ritorno di mille all’anno”, o con Francesco Profumo sicuro che “da quest’anno tutte le classi delle medie e delle superiori potranno contare su un computer da utilizzare nelle lezioni”.
Risultato? In questo maggio 2015 , le scuole definibili “digitali” (in grado dunque di organizzare un insegnamento che aiuti gli allievi sfruttando pienamente le potenzialità del sistema) sono soltanto 38 su 8.519. Aggiungeteci la povertà della banda larga in gran parte della Penisola, il fatto che spesso la connessione nemmeno arriva nelle aule, o che si è spesso costretti a fare lezioni al computer con tre alunni per schermo, e si capisce come mai qualcuno abbia scritto che “dalle Alpi all’Appennino, isole comprese, la digitalizzazione scolastica in Italia è da Terzo Mondo”. Quasi un istituto scolastico su due non ha una connessione Internet.
Evviva dunque la renziana “Buona Scuola”, con cui il premier-segretario promette l’ennesima rivoluzione. Fra l’altro, la riforma prevede anche il “Coding”, metodo per promuovere una nuova forma di insegnamento dell’informatica già a partire dalla scuola primaria. Ma c’è un problema: “Infatti, come introdurre il ‘coding’ nelle scuole elementari la media delle connessioni esistenti precipita all’11 per cento?”, si interroga e denuncia “Unigenitori”. Così è probabile che dovranno ancora essere le famiglie a provvedere. Spesso i computer che mancano in classe – anche per mancanza di fondi – vengono comprati dai genitori. Ma fossero soltanto i pc e l’alta tecnologia. Molte famiglie devono ancora provvedere a penne e gomme per cancellare, fogli e…carta igienica.
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