La Cina tra esperimenti di mercato e vecchio dirigismo
di Alessia Amighini e Andrea Goldstein (LaVoce.info)
Il crollo della borsa di Shanghai (e di Shenzen) pare inarrestabile. Non sembra che abbiano sortito alcun effetto gli interventi decisi nelle ultime settimane per prevenire il crollo dei listini, tra cui gli acquisti diretti di azioni da parte della China Securities Finance Corporation– il braccio operativo delle borse cinesi – e l’aumento senza precedenti al 30 per cento del loro attivo del tetto massimo d’investimento in azioni per i fondi pensione gestiti dai governi locali (con annesse istruzioni per raggiungerlo). Che possono fare a questo punto le autorità cinesi?
Quando si sgonfiano le bolle speculative
È vero che la fuga degli investitori dalle borse cinesi era in buona parte attesa: come sempre accade negli epiloghi delle bolle speculative – di cui l’aumento del 150 per cento dei prezzi azionari a Shanghai nell’ultimo anno era un chiaro esempio – le prime avvisaglie d’inversione di tendenza innescano una serie di correzioni a catena. Ma in questo caso c’è molto di più. Non si tratta solo di un forte calo di fiducia nella capacità di Pechino di gestire un atterraggio morbido dell’economia cinese verso un sentiero di crescita meno impetuosa rispetto al passato, ma più sostenibile. Quello da cui gli investitori (peraltro quasi esclusivamente cinesi) stanno fuggendo è un paese che introduce progressivamente il meccanismo di mercato (una decisione economica), ma che non è certamente pronto e forse neppure intenzionato ad accettare l’esito di tale meccanismo in termini di allocazione delle risorse (una decisione politica). E dà segnali, da un lato incoerenti sul corso futuro delle azioni del governo sulla strada delle riforme, e dall’altro lato invece coerenti con il solito atteggiamento dirigista di Pechino.
Gli eventi di quest’estate mostrano che Pechino tentenna e temporeggia, creando un clima d’incertezza che è peggiore della certezza del New Normal. Dopo aver incoraggiato molti piccoli e grandi risparmiatori e imprese a investire in borsa (come alternativa all’immobiliare già surriscaldato), permettendo le operazioni a leva, a inizio luglio il regolatore ha congelato miliardi di yuan, vietando per sei mesi la vendita di pacchetti azionari superiori al 5 per cento. Poi ha bloccato le contrattazioni e ha massicciamente acquistato titoli per due settimane, salvo fare marcia indietro il 14 agosto.
Perché Pechino ha svalutato lo yuan
In parallelo Pechino appare incerta e incoerente rispetto ai movimenti di capitale, con risultato di aumentare la volatilità e favorire brusche virate. E così i mercati hanno letto la decisione di Pechino di svalutare lo yuan di pochi punti percentuali l‘11 agosto semplicemente come reazione al rallentamento dell’economia, quando in realtà la manovra ha motivazioni più complesse. Non si tratta di una (semplice) svalutazione competitiva: ci vuol ben altro per stimolare l’export, che oggi non ha certamente bisogno di competere ulteriormente sul prezzo e che – è bene ricordarlo – nell’ultimo decennio è aumentato rapidamente nonostante lo yuan si sia apprezzato di circa il 30 per cento in termini sia nominali rispetto al dollaro, sia reali ). La revisione del meccanismo di adeguamento della parità centrale della banda di oscillazione all’interno della quale fluttua il renminbi, cioè di fatto la transizione da un cambio fisso a un cambio in regime di fluttuazione controllata, era da tempo suggerita anche dal Fondo monetario internazionale. In altre parole, è una riforma che tende ad accrescere il peso del mercato nell’economia nazionale.
Politiche eclettiche
Da quasi 40 anni Pechino gestisce la transizione economica in maniera eclettica, preferendo gli esperimenti all’alternativa del Big bang senza rete di protezione. Difficile, ma non impossibile, quando gli obiettivi di politica economica – inclusa quella commerciale, industriale e valutaria – convergevano in modo coerente sulla crescita della produzione e delle esportazioni. In questi mesi sta invece cercando d’introdurre simultaneamente svariati cambi negli ingranaggi dall’esito incerto lasciando il motore in piena corsa. Apparentemente quasi impossibile, soprattutto quando gli obiettivi sono molteplici, economici – riequilibrare le fonti della crescita (meno investimenti, soprattutto nell’immobiliare e nel manifatturiero, più consumi, se possibile di servizi) senza sgonfiarla troppo – ma anche politici: interni, mostrando ai cittadini cinesi che il Pcc è in grado di far correre l’economia sulle proprie gambe, ed esterni, cercando di convincere il resto del mondo che la Cina è pronta a garantire la Pax economica sinica. Anche se le vie della Cina sembrano infinite, questa volta per le abili autorità di Pechino gli obiettivi macro sembrano troppi e divergenti, e gli strumenti pochi.
I nodi al pettine
Nel breve periodo, per sostenere i corsi azionari Pechino può aumentare liquidità, oppure intervenire direttamente acquistando sul mercato aperto e riducendo le riserve obbligatorie delle banche. La seconda opzione mette a rischio la possibilità di essere ritenuta meritevole dello status di economia di mercato; allontana il sogno cinese di fare del renminbi la seconda valuta forte del sistema finanziario internazionale; e in più le banche (tutte di proprietà pubblica) favoriscono le imprese a capitale o controllo pubblico, e di conseguenza penalizzano gli investimenti privati più profittevoli e incentivano la crescita di settori già in eccesso di capacità. Il quantitative easing però favorisce ulteriormente la svalutazione del tasso di cambio, suscita le ire dei partner commerciali, soprattutto degli Stati Uniti, rende più care le importazioni di componenti che poi vengono assemblati in Cina (pensiamo ai processori e agli schermi per i pc e gli smartphone) e a sua volta incentiva la fuga di capitali.
Ormai i nodi di politica economica sono venuti al pettine, alla lunga per i governanti cinesi sarà arduo esimersi dal compito inedito di scegliere tra le priorità. Se il motore dell’economia cinese deve essere alimentato dal consumo privato (oggi in sorprendente diminuzione), dalle tecnologie e dall’imprenditorialità, Pechino dovrà mostrare con i fatti di voler fare più spazio al mercato. Resta da vedere se sarà facile, politicamente, convincere i cinesi ad accettarne tutte le conseguenze.
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