La fine delle sanzioni non farà dell’Iran l’egemone regionale
di Dario Fabbri (LIMES)
La fine delle sanzioni economiche europee e la (parziale) sospensione di quelle americane consentiranno all’Iran di migliorare la propria situazione economica. La Repubblica Islamica nei prossimi mesi tornerà ad esportare petrolio e potrà accedere nuovamente al credito e all’expertise occidentale. Eppure, a dispetto dei timori di sauditi, israeliani e repubblicani statunitensi, Teheran non riuscirà a dominare il Medio Oriente.
Come previsto dagli accordi raggiunti a luglio, la scorsa settimana l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha documentato che la Repubblica Islamica ha ridotto a 300 chilogrammi la quantità di uranio arricchito presente nel paese, diminuito il numero delle sue centrifughe e disabilitato il reattore nucleare di Arak. Una certificazione che lunedì ha indotto Unione Europea e Stati Uniti a rivedere la propria legislazione in materia. In particolare Bruxelles ha rimosso l’embargo sull’importazione del petrolio persiano e ora permette alle banche iraniane di operare con quelle europee e alle multinazionali di investire in loco. La Casa Bianca ha invece sospeso le cosiddette sanzioni secondarie, ovvero quelle che proibiscono a qualsiasi azienda straniera di fare affari con la Repubblica Islamica. Mentre restano in vigore le misure incentrate sull’Iran Sanctions Act che il Congresso, a maggioranza repubblicana, è contrario ad annullare.
Risultato: nelle prossime settimane Teheran riceverà circa 50 miliardi di dollari in asset congelati sparsi per il mondo (altri 50 miliardi saranno spesi in debiti pregressi) e potrà esportare greggio soprattutto verso le nazioni europee (Francia, Spagna, Germania, Italia su tutte), nonché verso Cina e India. Quindi l’ingresso di nuovi investitori aumenterà la produttività del paese e ne rilancerà interi settori prostrati dall’isolamento. Tuttavia, benché alcuni analisti sostengano che l’infusione di valuta straniera imprimerà una svolta decisiva alla politica estera iraniana, nei prossimi anni la Repubblica Islamica non riuscirà a trasformarsi nell’egemone mediorientale.
Anzitutto, effetto diretto dell’aumento della produzione voluto dall’Arabia Saudita e dalle altre monarchie del Golfo proprio in funzione anti-persiana, il crollo del prezzo del petrolio ridurrà i benefici connessi al reinserimento nel mercato globale. Solo per raggiungere il pareggio di bilancio Teheran avrebbe bisogno di una quotazione del barile intorno ai 100 dollari, contro gli attuali 30 dollari. Peraltro la stessa collocazione sul mercato del greggio iraniano, unita al rallentamento della crescita cinese e all’anemica ripresa europea, determinerà probabilmente un ulteriore ribasso.
Inoltre, anche se avesse accesso ad ingenti risorse finanziarie, la Repubblica Islamica è troppo impegnata a difendere la propria sfera di influenza per passare all’offensiva. In difficoltà in Siria e in Iraq, in questa fase non avrebbe la capacità militare per lanciarsi in nuove avventure ed esporsi ad altri attacchi del fronte sunnita. Infine, come dimostrato dalle sanzioni appena applicate al programma balistico di Teheran, gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di lasciare campo libero alla Repubblica Islamica. Anzi, determinata a stabilire un equilibrio di potenza nella regione, nei prossimi mesi Washington continuerà ad intervenire per sostenere ciclicamente la potenza mediorientale maggiormente in difficoltà e colpire invece quella in auge. Un proposito cui si aggiungono le manovre di Turchia, Arabia Saudita e Israele che, altrettanto contrarie ad un espansione dell’azione iraniana, nel medio periodo inibiranno le più audaci ambizioni degli ayatollah. E manterranno il Medio Oriente in bilico.
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