Le elezioni iraniane avranno un’incidenza in patria ma non sulla politica estera
di Dario Fabbri (Limes)
La consultazione parlamentare e l’elezione dell’assemblea degli Esperti hanno registrato in Iran la vittoria della coalizione formata da riformisti e moderati, nonché la sconfitta degli ultraconservatori. Un esito favorevole al presidente Hassan Rouhani, che potrà così mantenere la sua politica di apertura nei confronti della comunità internazionale ma che, a dispetto delle aspettative occidentali, non modificherà la strategia della Repubblica Islamica. Segnata dal tentativo di mantenere l’influenza del paese in Medioriente e dalla difesa dei programmi missilistico e nucleare.
Secondo i dati diffusi dal ministero degli Interni, lo scorso 26 febbraio sono stati eletti al parlamento 80 riformisti, 60 moderati e 76 conservatori, mentre 62 seggi dovranno essere assegnati nei ballottaggi previsti per aprile. Peraltro a Teheran i membri della cosiddetta Lista della Speranza, fusione tra riformisti e moderati guidata dall’ex vice presidente Mohammad Reza Aref e sostenuta dall’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e dal presidente Rouhani, hanno conquistato tutti i seggi a disposizione (ben 30). Così nell’assemblea degli Esperti, l’organo composto da teologi islamici e deputato ad eleggere e rimuovere la Guida suprema, la stessa coalizione si è aggiudicata 52 seggi su 88.
Quanto basta per corroborare il margine di manovra di Rouhani, che ha visto premiata la scelta di negoziare con l’Occidente la collocazione del paese sullo scacchiere internazionale e la sospensione delle sanzioni. Ora, a patto che resista il sodalizio tra le due anime politiche uscite vincitrici dalle elezioni, quanto accaduto avrà un’incidenza rilevante nelle vicende domestiche. A partire dalla congiuntura economica (al momento si registra in Iran una disoccupazione del 25%) che il governo Rouhani cercherà di migliorare soprattutto grazie agli accordi siglati con le multinazionali straniere del settore manifatturiero. Giacché in questa fase il crollo del prezzo del barile non consente alla Repubblica Islamica di beneficiare della produzione di petrolio per quanto sperato. Inoltre nel corso dei prossimi otto anni l’assemblea degli Esperti potrebbe nominare una Guida suprema meno conservatrice delle precedenti.
Tuttavia l’affermazione del fronte “moderato” non produrrà un reale mutamento della politica estera di Teheran. Esponenti di un paese culturalmente assai coeso, i politici iraniani – tanto riformisti quanto conservatori – condividono lo stesso approccio alle relazioni internazionali. Nei prossimi mesi, nonostante le ristrettezze finanziarie e le difficoltà registrate sul terreno, la Repubblica Islamica continuerà a battersi per mantenere la propria aerea di influenza, che nei calcoli dovrebbe estendersi dal Golfo Persico al Mediterraneo. Con conseguente reiterato impegno in favore del governo iracheno, di ciò che residua del regime siriano e degli hezbollah libanesi. Analogamente il governo Rouhani cercherà di contrastare – specie in Siria – l’avanzamento di Arabia Saudita e Turchia; di penetrare in Afghanistan; e di collaborare con la Russia fin quando lo riterrà conveniente. Così, anche la nuova maggioranza parlamentare, sosterrà il programma missilistico e nucleare, considerati il mezzo migliore per preservare la sovranità nazionale. Indipendentemente dalla condanna che tali iniziative possono attirare da parte della comunità internazionale. Perché, a dispetto delle oleografiche semplificazioni realizzate in Occidente, la strategia iraniana non è il frutto del radicalismo della leadership nazionale. Quanto il prodotto di una antica e spiccata profondità imperiale.
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