Myanmar, le poste in gioco
Con la vittoria di Aung San Suu Kyi alle elezioni, inizia il periodo più rilevante nella storia del Paese [di Dario Fabbri, Limes]
La vittoria del partito di Aung San Suu Kyi alle elezioni di domenica scorsa segna l’inizio di una fase cruciale per il Myanmar. Sia per quanto riguarda la transizione democratica che dovrebbe compiersi nei prossimi mesi, quanto per le tensioni etniche esistenti all’interno del paese e per il ruolo che questo riveste nella competizione tra Stati Uniti e Cina.
Stando ai dati ufficiali – non ancora definitivi a tre giorni dal voto – la Lega Nazionale per la Democrazia, il partito guidato dal premio Nobel per la pace, si è aggiudicato la maggioranza dei seggi al parlamento di Naypyidaw. Dopo oltre cinquant’anni di dittatura militare, il Myanmar potrebbe ora realizzare alcune delle riforme sociali e istituzionali necessarie a cambiare il volto del paese e a mettere fine alla violenza politica. Tuttavia gli ostacoli sulla via della democrazia e della stabilità sono molteplici. Aung San Suu Kyi non potrà essere eletta presidente perché la costituzione proibisce l’accesso alla carica più alta dello Stato a chi vanta parenti in possesso di un passaporto straniero (entrambi i suoi figli sono cittadini britannici). Analogamente i militari mantengono per legge il diritto a nominare un quarto dei parlamentari, nonché il controllo sui ministeri più munifici e rilevanti (Interni, Difesa, Frontiere).
Nel frattempo resta alta la tensione nelle regioni periferiche, maggiormente ricche di risorse naturali. Al momento, oltre ad essere impegnato nella repressione dei musulmani Rohingya, una campagna silenziosamente sostenuta anche dalla stessa Aung San Suu Kyi, il governo centrale è in guerra con le minoranze di etnia cinese dei Kokang, degli Wa e dei Kachin. Solo lo scorso febbraio l’offensiva contro i Kokang ha prodotto circa 50mila sfollati. Ed è qui che gli affari domestici si fondono con la politica estera. Secondo molti analisti, Pechino finanzierebbe e armerebbe la ribellione di tali popolazioni nel tentativo di influenzare Naypyidaw. Il Myanmar rappresenta per la Repubblica Popolare un fornitore netto di materie prime (petrolio e metalli preziosi) e uno snodo fondamentale per il transito degli idrocarburi estratti in Africa e Medioriente, utile soprattutto per affrancarsi dallo stretto di Malacca, di fatto controllato dalla Marina Usa.
Per questo negli ultimi anni l’amministrazione Obama ha inaugurato una campagna di apertura nei confronti della giunta militare, che ha indirettamente condotto al risultato elettorale di domenica scorsa. A partire dal 2011 Washington ha sospeso le sanzioni economiche e l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton, e lo stesso Obama hanno personalmente visitato Naypyidaw. L’obiettivo è tanto allontanare l‘ex Birmania dalla Cina, quanto consentire alle industrie occidentali di accedere al paese, specie nel settore del turismo e dell’edilizia. Proprio mentre il nuovo Myanmar fa gola a molti dei suoi vicini, con i giapponesi che finanziano la costruzione del porto di Thalawa e i thailandesi quello di Dawei.
Incroci sostanziali di fattori interni ed interessi stranieri che costringeranno Aung San Suu Kyi ad affrontare con notevoli acrobazie il prossimo, decisivo periodo di assestamento.
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