Provenzano, dai pizzini alla mafia com’è
Qualche giorno dopo andammo a filmare il "covo". In realtà, la masseria di un contadino che produceva formaggi, anonima ma nient'affatto nascosta, circondata da campagna e frutteti, a una decina di minuti in auto da Corleone, e dunque dalla sua famiglia.
Poco prima il capitano che aveva organizzato il “blitz” ci aveva raccontato dei lunghi mesi fatti di controlli, appostamenti, cannocchiali potentissimi per seguire da lontano (“il più lontano possibile”) i movimenti attorno alla casupola, l’arrivo di chi gli portava il cibo e ritirava i suoi “pizzini”. Lì, nel suo ultimo rifugio, Bernardo Provenzano, morto ieri a 43 anni in un carcere lombardo, venne finalmente catturato in un’alba della primavera 2006. Dopo ben 43 anni di latitanza.
“Binnu u’ tratturi”, lo avevano soprannominato quelli di Cosa Nostra, per sottolineare la sanguinaria determinazione dell’uomo dal fisico fragile ma dalla criminosa ambizione di ferro, che si muoveva con due pistole nella cintola. “La mafia è soprattutto violenza, estrema violenza, e non va mai dimenticato”, mi disse una volta Pietro Grasso, ex magistrato e oggi presidente del Senato. In effetti, la figura, quasi il “mito”, della primula rossa della mafia, ha fatto spesso dimenticare o messo in secondo piano quanto fosse stato sanguinario l’uomo che alla fine conquistò il vertice dell’organizzazione.
Lo diventò, capo dei capi, liquidando lo stragismo di Totò Riina, e imponendo la cosiddetta “strategia della sommissione”: una Mafia che doveva evitare di compiere stragi, di piazzare bombe, di sfidare e provocare le forze dell’ordine, naturalmente senza per questo rinunciare ai suoi numerosi “affari” criminali; una Mafia imprenditrice, che appendeva la coppola e faceva studiare i figli, che lasciava perdere la lupara e faceva entrare le nuove generazioni nel mondo degli affari, della finanza, dell’informatica, dell’espansione verso Settentrione, “l’ombra della malavita che si allunga fino al Nord” (Lombardia, a anche Svizzera), come aveva profetizzato Leonardo Sciascia. E ovviamente una mafia che doveva rafforzare il legame, l’intesa e i reciproci interessi (anche elettorali) con certi ambienti della politica. Solo così si spiegano oltre quattro decenni di latitanza. “La forza della mafia – ha detto don Ciotti, il sacerdote impegnato nel contrasto alle organizzazioni criminali e al sequestro dei loro beni – non sta dentro la mafia: sta fuori, sta nei segmenti della politica e dell’imprenditoria”.
Esattamente quel che aveva voluto Provenzano con la strategia della sommersione. Che l’ha resa meno visibile, ma purtroppo non meno pericolosa e pervasiva. Così “Binnu u’ tratturi” simboleggiò la congiunzione, la cerniera storica fra la mafia dei “pizzini” e quella che i suoi affari ormai li organizza in rete. Lo aveva del resto previsto Giovanni Falcone: “La mafia si caratterizza per la capacità di adeguare riti e comportamenti arcaici alle esigenze del presente”. Così è stato.
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