Quando alla volpe si spalanca la porta del pollaio
di Aldo Sofia
“E a partire da quel momento, fu come aprire la porta del pollaio alla volpe”, mi sorride l’interlocutore. Riconosco la battuta, la inventò un economista americano. E rende benissimo l’idea. Sto lavorando (giornalisticamente) sull’Expo 2015, cercando anche di capire se vi furono premesse che favorirono obiettivamente gli untori della corruzione che pesa sull’immagine dell’Esposizione universale di Milano. E su quella dell’Italia.
C’é appunto chi parla di “volpe e pollaio”. Fu quando – era attorno al 2009 – venne deciso che l’area prescelta per Expo, a nord della capitale lombarda, non sarebbe stata formata da aree pubbliche, ma in buona parte da terreno privato. Un affarone per i proprietari. Una decisione inedita nella storia di questo tipo di manifestazione. Fu quella, si dice, la bandierina a scacchi che inaugurava la corsa, anche con mezzi impropri, all’acquisizione dei lavori.
Certo, non significa affatto che tutte le ditte impegnate nella corsa contro il tempo per la realizzazione dell’Expo (taglio del nastro previsto per il 1. maggio 2015) siano tangentiste. Ma le prime ammissioni di arrestati e inquisiti fanno capire che il “buco nero” è profondo, il sistema ben rodato, gli accusati (alcuni già condannati all’epoca di Mani puliti) dei gran professionisti.
Se si cerca di individuare le radici del male (e non limitarsi a generiche etichette sull’indole italica) ci si accorge che non c’è una sola volpe. Ce ne sono diverse. A Roma, negli uffici dell’Autorità sulla sorveglianza dei contratti pubblici, ribadiscono per esempio le risultanti shock delle loro verifiche: mezzo miliardo di euro di lavori attribuiti nell’ambito delle opere Expo senza sottostare alle consuete norme sui concorsi. Cinquecento milioni di euro, una enormità. E tutto grazie alle deroghe concesse dal governo in nome dell’urgenza, come quasi sempre quando nel Bel Paese si tratta di “grandi opere”.
In realtà allora l’urgenza non c’era affatto, il tempo non mancava, ma intanto la vigilanza venne indebitamente allentata. E il vostro ufficio non poteva segnalarlo a tempo debito?, chiedo al presidente Sergio Santoro. “L’abbiamo fatto cinque anni fa”. Inascoltati dalla politica. “Sì, a volte mi sento frustrato, ma noi non abbiamo poteri investigativi, unicamente di verifica, non possiamo inviare poliziotti e usare manette”. E le volpi lo sanno. Lo sapevano anche per il ‘Mose’, la grande torta veneziana. “Anche in quel caso avevamo segnalato la gigantesca anomalia di lavori assegnati a un unico consorzio. Tutto inutile”.
Magari le solite volpi ci mettono sornionamente anche il loro zampino quando, subito dopo queste denunce, sulla stampa nazionale ci si comincia a interrogare: a cosa serve l’Ufficio dell’Autorità di vigilanza, cosa ci fanno le oltre trecento persone ospitate in eleganti uffici a fianco di Piazza del Popolo, sono giustificati i 200 mila euro lordi di salario per il suo presidente, non sarebbe il caso di chiudere anche questa struttura nell’ambito della spending review?
Un altro esempio di mancato controllo? A Milano siede settimanalmente una Commissione regionale per il controllo anticrimine e anticorruzione, che dovrebbe interessarsi anche dell’Expo. Da mesi denuncia di non ricevere le necessarie informative, di non essere coinvolta, di non poter operare. Provocatoriamente chiede che il suo nome venga stralciato dal sito della manifestazione. Viene subito accontentata: senza che nessuno si prenda la briga di una telefonata, di un chiarimento, di un invito a non gettare la spugna.
Ma guarda che certe volpi sono davvero furbe. E che importa se la corruzione costa annualmente all’Italia (il pollaio da saccheggiare) quanto cinque manovre finanzierei?
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