Renzi lo “spadaccino” solitario, ma ancora per quanto?
di Aldo Sofia
Prodi ciclista, Berlusconi col casco da pompiere, e Renzi? Renzi riceve a Palazzo Chigi le campionesse della scherma, si fa consegnare l’ “arma”, e mima una stoccata. A ognuno l’istantanea che merita. O che preferisce. Ad uso mediatico. Anche se per l’ex sindaco di Firenze, spadaccino improvvisato, non vale certo il grido di battaglia dei quattro moschettieri. Lui farebbe volentieri a meno della prima parte, per concentrarsi soltanto sul fatico “tutti per uno”.
Meglio ancora: tutti contro uno.
Perché ormai è chiaro. Nel caos della riforma istituzionale, che deve sopprimere il Senato così com’è, il premier punta tutto sull’immagine del leader che affronta da solo il vecchio, conservatore, immobile ceto politico. Quello che, va ripetendo, si barrica dietro migliaia di emendamenti pur di non mollare le poltrone del privilegio.
Intendiamoci, le cose non stanno proprio così. O non soltanto. Ci sono buone ragioni per dissentire da una riforma che si giustifica in termini generali (l’eliminazione del sistema bicamerale perfetto, ormai una rarità in Europa); ma che poteva essere affrontata con più rispetto per la sostanza democratica (perché, infatti, non eleggerlo, tagliando semmai un centinaio di parlamentari della Camera se si tratta di abbattere i costi della politica?).
Ma Matteo Renzi non molla, al massimo promette modifiche per la riforma della legge elettorale, in modo da consolidare il “patto del Nazareno” con il redivivo Berlusconi. Non molla rispetto al ruolo che si è dato: il neo-Sansone che non teme di rimanere sotto le macerie, il rottamatore del vecchio sistema, che si annida anche nelle viscere del suo partito, il PD. Non molla perché è convinto che gli elettori (dopo averlo premiato alle europee con quasi il 41 per cento dei favori) sta dalla sua parte nella lotta contro il Palazzo della “casta”, vera o presunta che sia.
I numeri sembrerebbero dargli ragione. Ilvo Diamanti, uno dei più accreditati analisti politici, sostiene in effetti che “non si spiegherebbe altrimenti come Renzi e il suo governo possano mantenere indici di gradimento così alti. Persino in crescita, nelle ultime settimane (ndr: proprio quelle dell’agitato dibattito alla Camera Alta). La fiducia nel governo, secondo IPSOS, sarebbe salito oltre il 60 per cento, e il consenso ‘personale’ verso Renzi oltre il 66 per cento”.
Del resto, è opinione diffusa che la bagarre al Senato avrebbe un altro, seppur provvisorio vantaggio per il premier: occulta il problema dei problemi, la crisi economica, la crescita che non c’è, le previsioni del PIL costantemente al ribasso, l’Europa che non fa sconti sul rigore e i conti in regola, la disoccupazione che rimane inchiodata a numeri impressionanti. Certo, prima o poi, anche il “Renzi d’Artagnan” dovrà pur occuparsi del principale nodo italiano. E potrebbe essere il momento di un’amara verità, nonché la fine della politica degli annunci.
Ma per ora la battaglia della riforma istituzionale gli offre una preziosa tregua. Lo aiuta a mantenersi nel ruolo del “solo contro tutti”. Lo sorregge negli indici di popolarità. Gli consente di usare falci e tagliole. E magari di usare quella sciabola figurativa per tagliare – sospetto sempre più concreto – l’ultima fune. Quella che, se spezzata, e nonostante la sguaiata esultanza di chi vince un round in Senato, porterebbe dritto dritto alle elezioni anticipate in autunno. La vera minaccia. Lo spauracchio. Per tutti i suoi avversari. Fuori e dentro il suo stesso partito.
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