I fantasmi di Shatila
Trentamila anime in un chilometro quadrato. Quello di Shatila, il campo profughi palestinese alla periferia sud di Beirut, è un nome impresso nella storia e legato, insieme a Sabra, all’eccidio che 35 anni fa costò la vita a circa 3’000 persone.
La Svizzera è presente nel campo profughi palestinese di Shatila, alle porte di Beirut, per il tramite dell’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere. L’organizzazione, dal 2013 al 2016, ha sostenuto finanziariamente famiglie di rifugiati provenienza dalla Siria con un progetto definito di “assistenza cash”. Con l’aiuto di un partner locale, l’organizzazione Najdeh, sono state distribuite carte prepagate per permettere a queste persone di organizzarsi autonomamente nell’acquisto di cibo e medicamenti. L’Aiuto delle Chiese evangeliche svizzere sta valutando il proseguimento del progetto.
Una nazione nella nazione. Un formicaio dove gli abitanti vivono come fantasmi. Persone che per lo Stato libanese è come se non esistessero: non hanno documenti e quindi non possono accedere ai servizi di base, come la sanità o l’istruzione pubblica. E non possono lavorare, se non in nero: braccia prestate all’agricoltura o all’edilizia.
“È come se vivessimo sotto assedio. Le pressioni del Governo sono continue”, ci spiega Kazem Hassan, segretario generale a Shatila di al-Fatah, l’organizzazione politico-militare della sinistra palestinese che governa il campo.
Una soluzione temporanea
Cinquantacinque anni, modi garbati ma decisi, Karem Hassan è uno dei sopravvissuti al massacro del 1982. La sua è un’eloquenza silenziosa. Occhi neri e profondi, soppesa e scandisce ogni parola quando ci racconta del luogo che lo ha visto nascere, e chiede più volte alla traduttrice di riportare fedelmente quello che racconta: “Il campo è stato creato nel 1949 per accogliere i palestinesi in fuga dal conflitto arabo-israeliano. Tutti pensavano fosse solo ‘temporaneo’, ma quasi 70 anni dopo siamo ancora qui”.
Il campo è vivo
Da sempre sovraffollato, con lo scoppio della guerra in Siria e l’arrivo di migliaia di famiglie in fuga da un conflitto che riecheggia a poche centinaia di chilometri di distanza, la situazione a Shatila è ormai al limite del collasso. Il campo non può essere ampliato e quindi si costruisce in altezza: piani su piani aggiunti a palazzine pronte a crollare in qualsiasi momento. Ai bordi delle strade – strette e intasate da automobili e carretti – cumuli di fango e spazzatura.
Qui, l’acqua corrente è un lusso. Le condutture idriche e i cavi dell’alta tensione viaggiano sospesi e appaiati. “Ma la popolazione non vive in uno stato di agonia”, tiene a precisare Kazem Hassan. Nonostante tutto il campo è vivo. Ci sono scuole e centri culturale e ricreativi.
Uno di questi è il Children and Youth Center (CYC). “Organizziamo attività didattiche e campi estivi e offriamo supporto psicologico ai giovani del campo”, ci spiega il coordinatore, Mohammad Abdul Latif. Gli insegnanti sono tre e lavorano a pieno ritmo: “Praticamente 24 ore al giorno”. Il CYC vanta pure una formazione di Dabke (danza tradizionale palestinese) e due squadre di calcio, una maschile e una femminile.
Tornare a casa
Nel paese dei cedri, un palestinese può trovare lavoro solo nell’economia sommersa, guadagnando al massimo 1’500-2’000 dollari all’anno, ovvero l’equivalente dello stipendio mensile medio di un lavoratore libanese. Solo i più istruiti, una minima parte, riescono a trovare un’occupazione in seno alle ONG. Altri, invece, senza più prospettive, scelgono di percorrere la strada dell’islamismo radicale.
“Le istituzioni ci hanno abbandonati e anche le organizzazioni internazionali non fanno abbastanza”, spiega Kazem Hassan che, poco prima di salutarci, aggiunge: “Dobbiamo continuare a resistere. Perché presto torneremo a casa”.
Altre immagini del reportage da Shatila quiCollegamento esterno.
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