Roma e Torino, le due facce dei grillismo
Si dice che vi sia molta, troppo fretta nel voler annunciare la fine dei "grillini" , e della "democrazia della rete" , in seguito a "quer pasticciaccio brutto" (riecheggiando il romanzo di Gadda) che si sta consumando negli edifici del Comune di Roma, sul Campidoglio, uno dei sette colli su cui venne fondata la città eterna, altezza del colle…meno di cinquanta metri
Certo, se Roma, come è stato scritto, deve rappresentare lo “stress test” per verificare la capacità del Movimento nell’arte del governo anche a livello nazionale, allora il debutto della super-mediatizzata e fotografata Virginia Raggi, è quasi disastroso. Nomine bizzarre, amministratori pescati anche fra persone che in passato servirono sindaci di destra e di sinistra noni proprio referenziabili, megastipendi in vergognosa contraddizione con i principi proclamati dai Cinque Stelle, il silenzio dei vertici su inquisiti dalla magistratura, e poi una cascata di assessori che fuggono o vengono dimessi.
Insomma, puro “stil vecchio”, più che nuova trasparenza politica. C’è dell’alto che ormai sembra accomunare i grillini con i partiti tradizionali: all’origine di tanta confusione, infatti, non vi è unicamente l’inesperienza politica, ma anche uno dei mali classici degli schieramenti italiani: le fratture interne, la nascita delle correnti, la lotta fra clan che non si dividono sulle idee bensì sulla “spartizione preventiva” di un successo elettorale (rinnovo del parlamento del 2018) che ancora qualche settimana fa i sondaggi davano unanimemente per sicuro.
E Grillo? Mediatore fluttuante. Tentato dalla voglia di riprendere le redini del Movimento e dal desiderio di lasciare ai giovani suoi pretoriani la guida del “partito che non c’è”, che pensa sia sufficiente un presunto e magico potere contaminante della rete, che favorisce candidature spontanee via web (a volte bastano poche centinaia di voti) senza poterne davvero valutare le capacità. Così, a Roma, Virginia Raggi è impreparata e nemmeno prepara uno staff credibile. E ancora non si capisce se sia cattiva e tenace farina del suo sacco, o se sia stata anche etero-diretta da quella sorta di “direttorio” a cui il “mediatore” (come ama definirsi il comico genovese) ha delegato in parte la guida del Movimento, insieme al misterioso e controverso ruolo della Casaleggio Associati (che per il secondo anno consecutivo va sulle cifre rosse).
Il padre fondatore del M5S ha sempre sostenuto che la stampa italiana non possiede gli strumenti culturali per comprendere il linguaggio del suo Movimento. Può essere. Ma intanto rischia di rimanere vittima egli stesso di quella che è stata definita la “dolorosa metamorfosi” del Movimento, e di doversi confrontare con i limiti del modello di selezione della classe dirigente.
Un Movimento in mezzo al guado, dunque. Bifronte, si direbbe. C’è infatti lo spettacolo romano, non proprio edificante. Ma c’è anche Torino, dove la gestione di Chiara Appendino è tutt’altra cosa: molto realismo, molta concretezza. E in questo confronto interno fra modelli diversi, una ragione “storica” ci sarà: nella capitale i Cinque Stelle ereditano comunque una situazione disastrosa e apparentemente irrimediabile, mentre nel capoluogo piemontese c’è stata l’esperienza di una lunga guida del PD, sconfitto più dalla voglia di rinnovamento che da un obiettivo bilancio del suo operato.
Dunque, modello ciociaro e modello piemontese a confronto. Nulla è definitivamente giocato per il futuro del Movimento, e il compiacimento dei rivali appare eccessivo. Lo dicono anche i sondaggi: in questa tempesta i grillini avrebbero lasciato sul campo solo un tre per cento dei favori. Perdita tutto sommato contenuta. Mentre, semmai, c’è l’innocenza perduta di chi si credeva e si voleva diverso.
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