Salvare la Grecia, ma chi salverà il Mezzogiorno d’Italia?
di Aldo Sofia
“In Svizzera c’è lavoro?”. Me lo chiede Andrea, poco più che ventenne, salito da Bari, bagnino tuttofare, tanta buona volontà, dodici ore al giorno, meno di ottocento euro al mese per i novanta giorni di lavoro che gli regala il periodo estivo. E poi? “Per l’autunno ancora non so, mi va bene tutto, cercherò nei cantieri, ma anche l’edilizia se la passa male, e c’è molta concorrenza, di italiani e no”. La domanda di Andrea mi è stata rivolta da tanti giovani meridionali. Perché ormai la questione è semplice: forse l’Europa sbullonata riuscirà a salvare la Grecia, ma chi salverà il Mezzogiorno d’Italia?
La questione dell’Ilva (l’enorme e super-inquinante impianto siderurgico di Taranto travolto dagli scandali, e al centro di un paralizzante braccio di ferro fra la giustizia che vuole salvare la salute di operai e cittadini, e un mondo politico e produttivo che intende difendere i posti di lavoro) oggi è solo la punta dell’iceberg. La tela di fondo tratteggia infatti una situazione di crescente frattura fra il Centro Nord e un Sud della penisola economicamente e socialmente sempre più lontano dal resto dell’Unione europea.
Così, ormai, il Mezzogiorno viene chiamato “la Grecia d’Italia”. Mentre il resto del Paese, anche se affannosamente, cerca di uscire dalla recessione agganciandosi al resto dell’UE e migliorando i dati dell’esportazione, al di sotto del Lazio si scontano otto anni consecutivi di PIL negativo, la disoccupazione che continua a crescere (con il peggior dato degli ultimi 35 anni), una progressiva desertificazione industriale, la mancanza di investimenti esteri e nazionali, gli ultimi posti nelle classifiche scolastiche, la peggiore qualità della pubblica amministrazione, il dilatarsi dell’area della povertà assoluta (nel 2014 un milione e mezzo di famiglie, pari a 4 milioni e 200 mila persone) che semplicemente significa vivere in condizioni durissime.
Ma c’è un nuovo dato Istat che impressiona: dice che, di questo passo, fra una cinquantina di anni (sembrano tanti, ma il tempo vola, soprattutto se non si intravvede una lince in fondo al tunnel) il Sud d’Italia avrà perso qualcosa come 4 milioni e duecentomila abitanti, cioè oltre un quinto della sua popolazione. Uno “svuotamento” demografico che riguarderà soprattutto i giovani costretti all’emigrazione. Oggi la popolazione meridionale rappresenta il 34,3 per cento di quella nazionale, ma senza inversione di tendenza si ridurrà al 27,3 per cento.
Dunque un’intera area rischia di invecchiare oltre misura e di spegnersi inesorabilmente. Una bomba sociale, e di costi sociali. Eppure per la politica la nuova questione meridionale rimane sottotraccia, come se non rappresentasse un’autentica emergenza. Ci sono responsabilità storiche di ogni tipo, le Casse del Mezzogiorno che più che altro hanno nutrito sterili clientelismi e mafie locali, così come non si possono negare le colpe dell’inefficiente classe politica locale. Ma cancellare la questione del Sud dall’agenda è un esercizio di pericolosa cecità politica. Una perenne zavorra per l’Italia.
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