“San Pietro non aveva un conto in banca”
e Papa Francesco cancella il segreto bancario di uno IOR con troppi segreti
di Aldo Sofia
Sembra che della Banca vaticana (IOR), della necessità di farvi pulizia, si parlò anche durante le Congregazioni cardinalizie, che precedettero l’elezione del papa “venuto dai confini del mondo”. Un pontefice che subito ha predicato una “Chiesa povera al servizio dei poveri”. Ma si sapeva anche che l’operazione di pulizia dello IOR – obiettivamente già avviata dal suo predecessore – sarebbe stata anche uno degli obiettivi più delicati, coraggiosi e “pericolosi” del pontificato di Francesco. Che ora, con l’addio del Vaticano al segreto bancario, di quell’operazione compie un passo decisivo.
Sta in una torre del 400, voluta da Niccolò V, con mura spesse 9 metri alla base, la sede della “banca del papa”. All’entrata nessuna insegna, nessuna sigla, nessun simbolo; solo la presenza perenne di due guardie svizzere segnala l’importanza dell’edificio. “E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”, dice il Vangelo secondo Matteo. Ma attraverso la cruna dello Ior sono transitate anche grandi fortune. Grandi e spesso oscure. Fu del resto uno dei suoi direttori, Angelo Coloia, ad ammettere che fra i clienti che fecero entrare le proprie fortune nella quattrocentesca torre, “qualcuno ebbe problemi con la giustizia”.
Di scandali legati allo IOR s’è parlato a più riprese. Il più clamoroso e chiacchierato fu quello legato al crack del Banco Ambrosiano, che oltretutto si lasciò alle spalle una scia di delitti di protagonisti nobili e meno “nobili”: Sindona (avvelenato in carcere), Calvi (trovato impiccato sotto un ponte di Londra), Alessandrini (il giudice istruttore ucciso da un presunto commando brigatista), e l’eroe di questa brutta storia, l’avvocato Giorgio Andreoli, assassinato sotto casa mentre indagava per conto della Banca d’Italia. E poi la figura di colui che venne definito l'”anima nera” ai vertici dello Ior, l’arcivescovo americano Paul Marcinkus (sigari e mazze da golf), di cui ad un certo punto la magistratura italiana chiese inutilmente l’arresto. Ombre che si allungarono anche sulla misteriosa morte di papa Luciani, il “papa dei trenta giorni”, ufficialmente stroncato da un infarto: pochi giorni prima, girò voce che Giovanni Paolo I desse il benservito allo spregiudicato prelato statunitense.
E poi, nelle casse del paradiso fiscale vaticano, si parlò anche dei soldi da riciclare per il capo mafia Riina, di quelli dello scandalo milanese “Tangentopoli”, più di recente addirittura di quelli di “Calciopoli”. E infine l’allontanamento del cardinale Viganò (“promosso” nunzio apostolico negli Stati Uniti) e il brusco licenziamento, nel 2012, del banchiere Ettore Gotti Tedeschi, invisi a una parte dei vertici dello IOR perché troppo impegnati nell’opera di repulisti. Sta di fatto che nel 2014, quando papa Francesco ordinò il definitivo avvio del nuovo corso di trasparenza, 3 mila conti correnti sospetti (su quasi 20 mila, utilizzati per lo più da religiosi) vennero chiusi d’ufficio, e i titolari invitati a cercare altri lidi.
Certo, non c’è stata solo la volontà del nuovo corso; le pressioni internazionali (come nel caso svizzero) hanno avuto il loro peso nell’addio vaticano al segreto bancario. Ma ci voleva anche e soprattutto il coraggio e le convinzioni di Francesco. Che ai difensori del vecchio IOR dedicò subito dopo la sua elezione una battuta corrosiva: “San Pietro non ebbe bisogno di un conto in banca”.
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