Sul carro del vincitore i “trumpiani” convertiti
Specchio specchio delle mie brame, chi è il più "trumpiano" del reame? Figurarsi se il vecchio vizio italiano di "salire sul carro del vincitore" - il conio è dello strepitoso Ennio Flaiano - non avrebbe registrato immediata e generosa applicazione dopo la vittoria di Trump. Con la sola eccezione, bisogna riconoscerlo, del leghista Salvini, che in aprile volò in Pennsylvania, riuscì a farsi fotografare con il candidato repubblicano, che però subito dopo negò di conoscere il politico italiano. Un Salvini che comunque, nell'euforia, esagera: "Trump ha lo stesso programma nostro", quando in realtà nemmeno i più raffinati analisti ancora non hanno capito ben quale sia esattamente l'agenda programmatica del 45esimo presidente degli Stati Uniti.
Poi arrivano, di corsa, i convertiti dell’ultimo momento. Prendiamo i Cinque Stelle. Prima del voto, Grillo sentenziò che quella prodotta dagli Stati Uniti (la sfida Clinton-Trump) “non è una cosa straordinaria”, il responsabile esteri del Movimento, Manlio di Stefano, andò ben oltre affermando “mi suiciderei piuttosto che votare uno di quei due”, mentre il montante Di Battista se ne uscì con un “meglio la candidata dei verdi, Jill Stein, e comunque noi abbiamo sempre seguito la regola della non ingerenza esterna”. Linea prudentissima, quasi sottotraccia, che si trasforma in fanfara trumpista poche ore dopo lo shock americano. Su tutti Beppe Grillo, che paragona l’9 novembre ad un colossale “Vaffa day”, il marchio grillino, che naturalmente verrà replicato presto nella Penisola; mentre sull’onda dell’entusiasmo, la sua deputata Ruocco chiede addirittura le immediate dimissioni della ministra Boschi colpevole di aver pubblicamente tifato per Hillary Clinton. Incoerenza? No, pura sfacciataggine.
Di “carristi” dell’ultima ora non manca il centro-destra. Esempi. Alla vigilia delle presidenziali, Maurizio Gasparri arrivò ad affermare (pensando di essere anche ironico): “Trump mi crolla sui capelli, quel riporto lo rende inaffidabile, è folklore mentre io mi occupo di politica”; per poi esercitarsi via twitter ad esaltare il “Don” statunitense, ciuffo compreso. E Brunetta? Ascoltate: “Candidati americani poco credibili, e pur di scongiurare la vittoria di Trump voterei Hillary”, ma immediatamente rovescia la frittata affermando soddisfatto che con l’arrivo di “The Dionald” alla Casa Bianca “vince la democrazia e perdono i poteri forti, gli stessi che sostengono Renzi”. Nella lista dei convertivi c’è pure il più prudente capogruppo di Forza Italia, Paolo Romani, il quale se ne uscì affermando che “uno come Trump non lo voterei per nulla al mondo”. E oggi? “Il sogno americano ha vinto ancora”.
Stranamente, finora il più sobrio sembra proprio Berlusconi, il politico più associabile al tycoon americano, tanto che Trump si è meritato anche il titolo di “Silvio d’America”. Sembra che l’ex cav. avesse così definito quello che sarà l’uomo più potente del mondo: “Un incrocio fra Grillo e Salvini”, e non suonava certo come un complimento. Ma ora, secondo quelli del suo cerchio magico, si proporrebbe come mediatore fra Putin e Trump per uscire dalla nuova guerra fredda.
Per una volta, Renzi tace a lungo, prima di limitarsi alla diplomatica dichiarazione sui rapporti fra Washington e Roma, che rimarranno amiche. Dalle presidenziali americane esce sconfitta anche la coppia Obama, che si era molto spesa nel sostegno alla candidata democratica. E sugli Obama il premier aveva puntato molto con la visita straordinariamente mediatizzata del mese scorso. Pacche sulle spalle, dichiarazioni sulla reciproca stima, anche per recuperare nei sondaggi negativi sul cruciale referendum istituzionale. Ora il premier-segretario teme che lo “shock” Trump favorisca i suoi oppositori, incoraggiati dalla rivolta anti-élite. Umor grigio a Palazzo Chigi. In una riunione di governo, sembra che l’unica a stemperare il nervosismo con una battuta ci abbia provato la Boschi: “E se Trump scegliesse Briatore come ambasciatore in Italia?”. Chissà se qualcuno ha riso?
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