Trump, Taiwan e la fine dello spauracchio cinese
Con la telefonata intercorsa con la presidente di Taiwan, Donald Trump ha voluto segnalare a Pechino l'intenzione di rivedere i bilaterali rapporti commerciali, modificandone l'equilibrio in favore degli Stati Uniti. Ovvero la ragione stessa per cui è stato eletto alla Casa Bianca. Altrettanto rilevante, l'atteggiamento di Trump palesa la volontà da parte degli strateghi statunitensi di sfruttare le immense difficoltà che sta vivendo la Cina.
Lo scorso 8 novembre il magnate newyorkese è riuscito a battere Hillary Clinton cavalcando abilmente la frustrazione della classe medio-bassa del paese, il cui reddito medio è diminuito negli ultimi vent’anni e che non ha saputo convertirsi alla nuova economia. Nelle dichiarazioni elettorali di Trump, il proposito di produrre un nuovo assetto commerciale internazionale che sia più funzionale agli interessi americani. Nonché la promessa di rimpatriare le manifatture che dall’inizio della globalizzazione hanno lasciato gli Stati Uniti per trasferirsi in nazioni dalla manodopera meno costosa, come la Cina.
Non è dunque un caso che il primo simbolico gesto di rottura compiuto da Trump abbia riguardato la Repubblica Popolare. Venerdì scorso il futuro capo della Casa Bianca si è intrattenuto al telefono per circa dieci minuti con la sua omologa taiwanese, Tsai Ing-wen. Per la prima volta dal 1972, anno in cui Washington ha posticciamente adottato la politica di “una sola Cina” e ufficialmente interrotto le relazioni con Taipei, un presidente statunitense (ancorché in attesa di insediamento) ha avuto contatti ufficiali con il leader di Taiwan.
In realtà l’isola “ribelle” dipende dalla superpotenza per la propria sopravvivenza e da sempre le relazioni bilaterali sono costanti in ogni settore. Fin quando ne avrà capacità Washington impedirà l’assorbimento di Taipei da parte della Repubblica Popolare, giacché l’isola di Formosa funge da “portaerei” per ogni intervento navale statunitense e da ulteriore ostacolo all’espansione marittima di Pechino.
Ma l’iniziativa di Trump esprime l’intento di ridefinire i termini della relazione commerciale cinese-statunitense. Mostrando un tasso di imprevedibilità apparentemente elevato, dunque utile in qualsiasi negoziato. Il presidente entrante non ha interesse ad ufficializzare le relazioni diplomatiche con Taipei, peraltro note. Semplicemente si propone di imporre a Pechino le proprie richieste, in un momento assai complesso per la Repubblica Popolare.
Nelle intenzioni della prossima amministrazione vi è l’imposizione di notevoli dazi doganali ai prodotti cinesi; la denominazione di manipolatore di moneta ai danni di Pechino; l’approvazione di sostanziose agevolazioni fiscali alle industrie disposte a tornare negli Stati Uniti.
Difficilmente la Casa Bianca centrerà tutti gli obiettivi – il ben più potente Congresso ne condivide solo parzialmente i propositi – ma l’atteggiamento scenograficamente anti-cinese certifica la posizione di forza in cui si trovano gli Stati Uniti. Prima potenza militare e dunque finanziaria del globo, l’America resta partner necessario della Repubblica Popolare che, dipendente oltremodo dalle esportazioni, non può rinunciare al mercato domestico statunitense, né collocare altrove i circa 1300 miliardi di dollari che detiene in debito pubblico Usa. Peraltro Washington possiede in potenza la straordinaria capacità di frantumare i risparmi cinesi, svalutando a piacimento il dollaro anche per rilanciare le proprie esportazioni, e di interdire l’accesso di Pechino alle rotte marittime globali, interamente controllate dalla Marina Usa.
Una consapevolezza che informa l’approccio di Trump e che collide grandemente con la preoccupazione per l’ascesa della Cina che animava Obama. Ormai risalente al 2008, quando l’Impero Celeste sembrava un gigante inarrestabile.
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