“Un’ambizione smisurata” e così Renzi licenzia Letta
di Aldo Sofia
Il segretario del PD e sindaco di Firenze verso Palazzo Chigi
Consapevole che, “andreottianamente”, il potere logora chi non ce l’ha, Matteo Renzi decide di prenderselo tutto, il potere. Con un blitz anche brutale, e la cui asprezza non può certo essere occultata dai “sinceri” e ritualistici ringraziamenti al duellante sconfitto, Enrico Letta. Si prende il potere, il sindaco di Firenze, per non farsi logorare. E, soprattutto, per tenerselo a lungo. Questo, almeno, nelle intenzioni.
Uno strappo spregiudicato e molto …renziano. Fino a pochi giorni fa, il sindaco di Firenze escludeva di volere subito il timone del governo, e di poter accettare un esito da “prima Repubblica”: niente più inciuci e larghe intese, nessuna manovra di Palazzo tipo Prima Repubblica, quindi niente che potesse minimamente assomigliare alla famosa staffetta Prodi-D’Alema del 1998, o al Mario Monti del novembre 2011o ancora al Letta diventato premier nell’aprile 2013 senza mandato popolare. Proprio per questo – e per sottolineare la discontinuità rispetto alla vecchia politica – Renzi aveva fatto inghiottire al PD anche l’accordo con Berlusconi sulla riforma elettorale, promettendo di sciogliere al più presto il parlamento. Tutto da dimenticare. Nel nome dell’emergenza, brusco cambio di passo. Segretario del PD da appena due mesi, ora punta dritto a Palazzo Chigi, anche lui senza la consacrazione delle urne. E vuole addirittura un governo “di legislatura”. Che vuol dire un governo che arrivi alla sua naturale scadenza, nel 2018.
“Ambizione smisurata”, l’ha definita lui stesso nel momento di licenziare il rivale. E, naturalmente, ad alto rischio. Certo, l’ambizione e il piglio decisionista non gli mancano, ed è convinto che soprattutto questo pretenda subito un Paese immobilizzato nella palude della crisi economica e sempre più lontano dalla sua classe politica. Ma vinto a mani basse il duello con Letta, il giovane Renzi entra ora in “terra incognita”. Incertezze di ogni genere, non necessariamente legata alla sua inesperienza (non è mai stato ministro, nemmeno siede in Parlamento).
Senza una maggioranza assoluta al Senato, bisognerà vedere con chi farà l’ennesima coalizione per le “grandi riforme”, e quanto potrà durare, in particolare se si tratta di far coabitare il nuovo centro-destra di Alfano (il “diversamente berlusconiano”), il drappello dei montiani, ed eventualmente la sinistra radicale di Vendola. Quale sarà la tenuta e la fedeltà al nuovo leader di un Partito Democratico che con il duello andato in scena negli ultimi giorni ha di nuovo offerto uno spettacolo poco edificante e che per l’ennesima volta ha sfiorato la scissione. Soprattutto, dovendo finalmente passare dalle parole ai fatti, dai proclami generici all’assunzione personale di responsabilità, quale sarà il programma che dovrebbe provocare l’elettroshock promesso all’Italia “sorvegliata speciale” d’Europa.
Ammiratore del “new Labour” di Tony Blair, si é sempre proclamato Matteo Renzi. Ma bisognerà capire cosa possa essere e come possa funzionare un blairismo in salsa italica. Né avrà molto tempo il “premier in pectore”. La principale insidia sta proprio nell’impazienza, nella stanchezza e nell’insofferenza di un Paese che ad una politica piegata su sé stessa chiede soluzioni immediate a ciclopici problemi economico-sociali, e che senza risultati a brevissimo termine potrebbe presto scivolare in una rabbiosa disillusione. I principali “atout” di Renzi sono invece la mancanza di alternative, la novità che egli rappresenta col suo “stil novo” e la sua freschezza, e ancor più l’evidente debolezza di tutti gli altri protagonisti della scena politica italiana, preoccupati di spianare definitivamente la strada all’alternativa grillina. Come del resto conferma, in queste ore, anche il prudente attendismo di Berlusconi.
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