Un nuovo intervento occidentale in Libia rischia di favorire lo Stato Islamico
di Dario Fabbri
In attesa dell’approvazione del governo di unità nazionale, Francia e Gran Bretagna scalpitano per un nuovo intervento militare in Libia. Pressoché lo stesso del 2011, con gli Stati Uniti in posizione defilata e l’Italia costretta a partecipare controvoglia. Con il concreto rischio di accrescere il caos e corroborare il locale ramo dello Stato Islamico, potenzialmente in grado di sfruttare la campagna occidentale per incoronarsi campione della causa libica.
In seguito alla deposizione del rais Gheddafi, in mancanza di un regime compiuto e grazie agli armamenti forniti ai “ribelli” durante la guerra civile, nel paese si sono moltiplicati governi concorrenziali e milizie agguerrite. Nello specifico esistono oggi tre diversi esecutivi afferenti a potenze straniere in lotta per il controllo della Libia: uno stanziato a Tobruk, legittimato dalla comunità occidentale e dall’Egitto; un altro con sede a Tripoli, appoggiato da Turchia, Qatar e Sudan; infine il governo di unità nazionale, in costruzione a Tunisi e per ora capace di esercitare la propria sovranità soltanto sull’albergo in cui si riunisce. Così si combattono sul terreno circa duemila milizie, dedite a traffici illeciti e impegnate a contendersi le principali città del paese. Tra le più attive: Ansar al-Sharia, prossima alla fazione di Tripoli ma dotata di un’agenda indipendente, e la sezione in franchising del califfato. A queste si aggiungono il sedicente esercito libico guidato dal generale Khalifa Haftar, in contatto con l’Egitto e con il governo di Tobruk; nonché la Guardia delle strutture petrolifere, comandata da Ibrahim Jadhran.
In tale improbabile contesto, la presenza dello Stato Islamico sembra potersi trasformare nel casus belli per uno sbarco occidentale in Nord Africa. Respinti a Derna nel 2015 dalle milizie locali, i jihadisti reduci dal Siraq si sono stanziati a Sirte ottenendo il sostegno dei gheddafiani, esclusi dai principali giochi nazionali e intenzionati ad intestarsi l’efficace brand del califfato. Come già successo in Iraq e in Siria, i laici esponenti del precedente regime si sono riciclati nell’internazionale jihadista, ma al momento rappresentano soltanto una delle bande armate che agiscono in Libia. Nemmeno la più temibile.
Eppure minacciano la mezzaluna petrolifera, il bacino in cui si concentra il 70% del greggio locale e in cui operano le multinazionali del settore. Sicché le potenze occidentali attenderebbero la formazione del nuovo governo proprio per colpire le istallazioni dello Stato Islamico. Secondo indiscrezioni, il piano prevedrebbe bombardamenti aerei effettuati principalmente da francesi e britannici, con gli americani in funzione di supporto e impegnati a realizzare blitz “chirurgici” contro esponenti illustri del califfato. Esattamente come nel 2011, l’Italia sarebbe invece obbligata ad intervenire per difendere i suoi interessi in loco, principalmente insidiati dall’azione alleata, mentre preferirebbe limitarsi ad addestrare le future forze armate libiche. Al governo Renzi spetterebbe poi di inviare sul terreno il grosso del contingente.
Un’azione che, anziché pacificare ciò che resta della Libia e mettere al sicuro i giacimenti petroliferi, rischia di accrescere ulteriormente la violenza e, specie con l’arrivo della primavera, determinare un aumento netto degli sbarchi di profughi sulle coste europee. Soprattutto, pensata propagandisticamente per impedire ai jihadisti di stabilizzarsi sul Mediterraneo, la nuova campagna maghrebina potrebbe rafforzare proprio lo Stato Islamico, pronto a ergersi a paladino della cultura locale contro i “crociati”. Legittimando così se stesso nei confronti delle tribù ostili. In una riproposizione del disastroso intervento del 2011, con l’aggravante di conoscerne già l’esito
@dlfabbri
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