L’italianità in Svizzera, un concetto che sfugge al rigido principio della territorialità
Sono sempre di più le persone che parlano italiano senza però vivere in un comune in cui questa è la lingua principale. La promozione del plurilinguismo si deve quindi adattare a meccanismi diversi e maggiormente legati alla mobilità. Ne abbiamo parlato con Verio Pini, ex capo del Segretariato per la Svizzera italiana alla Cancelleria federale.
È dal 1917 che il Governo svizzero ha istituito un Segretariato di lingua italiana in seno alla Cancelleria federale e ha deciso di pubblicare il foglio federale svizzero anche in italiano. Un riconoscimento istituzionale importante a una delle quattro lingue nazionali, malgrado si tratti di un idioma parlato da una piccola percentuale di persone (meno di 600’000, poco più dell’8% della popolazione totale).
Da allora, il ruolo dell’italiano ha acquisito un’importanza sempre maggiore all’interno delle istituzioni ma si è anche dovuto confrontare con sfide nuove. Le esigenze del plurilinguismo si plasmano intorno alle esigenze di coloro che lo praticano, e quindi intorno ad una società che cambia.
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Italiano, una lingua svizzera
La storia dell’italiano in Svizzera deve parte della propria considerazione a livello nazionale anche a Verio Pini e al lavoro che ha svolto lungo qualche decennio.
Pini è stato infatti capo del Segretariato per la Svizzera italiana alla Cancelleria federale, responsabile della divisione italiana dei Servizi linguistici centrali e poi consulente per la politica delle lingue. Questo percorso ne ha fatto un testimone, nonché artefice del dibattito sulla Legge sulle lingue e della sua concreta attuazione a livello amministrativo.
Nell’intervista che ci ha rilasciato sull’italianità in Svizzera affrontiamo i cambiamenti che ci sono stati e quelli ancora in atto nel tentativo di coniugare il mondo di oggi, i nuovi sistemi comunicativi, la mobilità e le esigenze del mercato del lavoro con il principio di territorialità che per molto tempo ha accompagnato la rappresentanza linguistica nel Paese.
TVS: Quanto è importante a suo parere la presenza di persone italofone negli uffici pubblici e perché?
Verio Pini: Siamo un Paese plurilingue, caratterizzato da una crescente diversità culturale, in particolare negli agglomerati. La relazione tra la cittadinanza e le autorità o istituzioni, sia di livello locale, cantonale e federale, deve avvenire per quanto possibile in una lingua vicina e ben nota al cittadino o alla cittadina, e questo a volte contrasta con il cosiddetto “principio di territorialità” per cui ogni cantone decide e applica la propria lingua ufficiale. Un principio statico e in parte anacronistico rispetto alla mobilità di oggi.
L’onere organizzativo [delle istituzioni] è il prezzo della coesione sociale e nazionale, per un funzionamento corretto e democratico di un Paese basato sulla volontà di vivere insieme, oltre le differenze.
Detto questo, nei cinque cantoni plurilingui e ancor più a livello di Confederazione, è essenziale concretizzare una rappresentanza equa delle diverse comunità linguistiche in seno alle rispettive amministrazioni (il concetto di “representative bureaucracy” – Daniel Kübler 2021[1]). È un’esigenza prioritaria in termini di rispetto delle minoranze, di inter comprensione e di efficacia, che vale non solo per gli italofoni.
Ovviamente vi è un onere organizzativo, compensato poi dal rafforzamento delle competenze linguistiche del personale. Ma è il prezzo della coesione sociale e nazionale, per un funzionamento corretto e democratico di un Paese basato sulla volontà di vivere insieme, oltre le differenze – la Willensnation –, più che mai necessaria nel periodo geopolitico che viviamo.
Nel libroCollegamento esterno “Italianità plurale” parla dell’importanza della consapevolezza di un diritto da rivendicare: il diritto legato alla propria lingua italiana. Emerge già nel XVIII secolo ma, malgrado sia inserito nella Costituzione nel 1848, si dovrà attendere il 2007 per conquistare una legge dal valore simbolico forte. Se ne dovesse individuare solo alcuni, quali sono gli ambiti più importanti che questa legge ha toccato e migliorato?
Come lei giustamente ricorda, alla base vi è un lungo sviluppo storico che si concretizza in due atti importanti: la decisione del popolo nel 1996 di precisare nella Costituzione i principi in modo chiaro e strutturato (art. 70 Cost.Collegamento esterno, poi completato con l’art. 18Collegamento esterno e la ‘libertà di lingua’ nel 1999), e la successiva adozione della legge sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguisticheCollegamento esterno (2007).
Il primo acquisito si situa a questo livello e in questi due atti normativi: un’affermazione del plurilinguismo e della comprensione come principi statuali e base del nostro convivere democratico, strutturata e posta al rango di legge.
Le cinque sezioni della legge precisano i cinque capoversi della Costituzione federale (art. 70) e concretizzano altrettanti ambiti d’azione di grande importanza, dando visibilità e coerenza a quanto la Confederazione fa anzitutto per il plurilinguismo istituzionale (lingue ufficiali e parità, pubblicazioni, lingue di lavoro delle Camere); ma non solo.
Vi sono elementi nuovi a favore del plurilinguismo individuale, la promozione degli scambi tra scuole (art. 14), le basi per un Centro scientifico di competenza (realizzato a Friburgo e incaricato di coordinare e svolgere ricerca applicata; art. 17), la promozione del plurilinguismo e della comprensione tra comunità linguistiche (art. 18), un’equa rappresentanza delle comunità linguistiche nelle autorità federali, come pure la formazione linguistica del personale federale (art. 20; base legale anche per istituire un Delegato del Consiglio federale al plurilinguismo, per vigilare su tali compiti). E non da ultimo, nella sezione 5, è regolato il sostegno ricorrente dato a Ticino e Grigioni per promuovere l’italiano e il romancio.
Lei è stato un testimone diretto del percorso intrapreso dall’amministrazione federale nella politica sulle lingue nazionali. Cosa ha favorito la maturazione di questa “consapevolezza di un diritto da rivendicare”, di cui parliamo sopra e, rispettivamente, della presa di coscienza da parte della Confederazione della legittimità di questa rivendicazione?
La risposta a questa domanda meriterebbe ampio spazio ed è inevitabilmente sommaria. Ho tentato di ripercorrere alcuni momenti chiave nel volume Anche in italiano! 100 anni di lingua italiana nella cultura politica svizzera (Casagrande, 2017Collegamento esterno) e credo si possa dire che i principali “momenti di maturazione” come lei dice, siano avvenuti nei periodi di crisi.
Senza tornare alla Repubblica elveticaCollegamento esterno (1798-1803) e alla prima emancipazione consapevole delle nostre lingue minoritarie in un contesto “nazionale” e in base ai postulati della Rivoluzione francese, la Prima Guerra Mondiale ha certamente segnato una svolta determinante.
Il boom economico e l’avvento di media più efficaci hanno evidenziato la necessità di comunicare e informare meglio e più in fretta sul piano nazionale.
La necessità di coesione e di capirsi meglio, sentita da ambo le parti, accompagnata da tensioni cresciute dopo l’apertura della galleria ferroviaria del San Gottardo e la presenza viepiù fitta di tedescofoni in Ticino, ha portato rivendicazioni, ma anche un primo importante riconoscimento sul piano federale, con uno statuto più dignitoso per l’italiano (pubblicazioni ufficiali anche in italiano, ecc.).
Le difficoltà economiche del dopoguerra e il secondo conflitto mondiale hanno portato nuovi problemi e ulteriori richieste (le Rivendicazioni ticinesiCollegamento esterno dapprima, con diversi aspetti anche linguistici e scolastici, la Difesa spiritualeCollegamento esterno in seguito, per lottare contro i regimi autocratici dei Paesi limitrofi), corrisposte infine con maggior ascolto e con un rafforzamento anche del sostegno ricorrente all’italiano e al romancio, dagli anni Trenta in poi.
Le due “crisi” successive si situano su un piano diverso, che possiamo dire sociologico: il boom economico e l’avvento di media più efficaci – oltre alla radio si impone la televisione – ma anche i cambiamenti di società degli anni Sessanta e Settanta, hanno evidenziato la necessità di comunicare e informare meglio e più in fretta sul piano nazionale, coinvolgendo tutte le regioni del Paese. Da qui l’esigenza di dare forza e presenza anche all’italiano nell’amministrazione federale e in Parlamento, per garantire una partecipazione effettiva al processo legislativo e al dibattito politico.
Dagli anni Ottanta in poi, ossia il periodo che ho vissuto a livello federale, le sfide sono giunte dalla crescente diversità culturale, dalla forte mobilità, dalla progressiva integrazione europea, dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione in senso lato, fino a Internet e alle reti sociali, e dalle tensioni che questi mutamenti hanno indotto sul piano culturale e identitario.
Le sfide sono giunte dalla crescente diversità culturale, dalla forte mobilità, dalla progressiva integrazione europea, dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione in senso lato, fino a Internet e alle reti sociali.
Ci si è interrogati sul futuro del “quadrilinguismo svizzero”, sul romancio in declino, sulle insidie dell’inglese, e per finire persino sulla (in)comprensione tra le diverse regioni.
Da questo bilancio identitario è scaturita una scelta di campo, la volontà di promuovere la diversità culturale e il plurilinguismo, di rafforzare le strutture amministrative della Confederazione su questi aspetti (Programma del Consiglio federale 1992-2002), ancorare il nostro modello nella Costituzione (1996) e fissare i dettagli per legge (2007), integrandoli poi con la relativa ordinanza d’applicazione (2010).
Nel recente Messaggio per la promozione della cultura per il quadriennio 2025-2028, al punto 4.5.2Collegamento esterno, viene citata la necessità di approfondire la presenza delle lingue minoritarie anche al di fuori delle regioni di riferimento. Come interpreta questa volontà dell’Ufficio federale della cultura? Che potenziale ha?
La riflessione avviata con la legge ha indotto una dinamica positiva e nuovo slancio, grazie agli strumenti creati dalla legge, ma anche per iniziativa del Parlamento. Penso alla creazione di Intergruppi parlamentari legati alle lingue ufficiali e al plurilinguismo (2012), per monitorare la tematica e sensibilizzare il collegio, come pure ai nuovi “rilevamenti strutturali” elaborati dall’Ufficio federale di statistica.
Altri sviluppi
La complessa situazione della lingua italiana in Svizzera
Quest’ultimo aspetto ha svolto un ruolo importante per mostrare con maggior precisione i fenomeni sociolinguistici in atto: la forte mobilità delle persone sul territorio e tra regioni linguistiche diverse, il plurilinguismo effettivo di queste persone, inglese compreso, e il progressivo affermarsi di nuovi equilibri: la maggior parte dei romanciofoni vive a Zurigo e fuori dai Grigioni, l’italianità odierna – fatta di migrazione interna e nuove mobilità globalizzate – è più voluminosa ormai Oltralpe che nella Svizzera italiana tradizionale. Ma il discorso vale anche per il francofono che vive a Zurigo o il germanofono che lavora a Ginevra.
L’italianità odierna – fatta di migrazione interna e nuove mobilità globalizzate – è più voluminosa ormai Oltralpe che nella Svizzera italiana tradizionale.
Queste persone chiedono un minimo di strutture scolastiche per i propri figli, dove coltivare almeno in parte la loro lingua e cultura d’origine. L’Ufficio federale della cultura ha capito l’urgenza di questa richiesta; l’ha pure analizzata ai fini di un “Piano d’azione” apposito – grazie alla consulenza di Interface PolitikstudienCollegamento esterno – e il Parlamento l’ha validata nella sessione autunnale appena conclusa, approvando il messaggio. La decisione è importante e positiva.
Per ora l’accento è posto sulle due minoranze più esposte e la strategia da seguire non è ancora nota, ma la riflessione va oltre, nel tentativo di coniugare in modo più maturo e flessibile la mobilità odierna e le esigenze del mercato del lavoro con la rigidità del ‘principio di territorialità’. È senz’altro il modo più ragionevole di promuovere il nostro plurilinguismo, evitando di scivolare piano piano verso un confortevole monolinguismo (magari in dialetto) + l’inglese.
In tal caso l’impoverimento sarebbe culturale e identitario ma non solo: significherebbe perdere competenze e opportunità economiche anche per le singole persone nel mondo del lavoro, come è stato più volte dimostrato (si veda ad esempio la recente analisiCollegamento esterno di François GrinCollegamento esterno e Ilaria MasieroCollegamento esterno, Mesurer la valeur du plurilinguisme suisse, Genève, elf, 2024). Chi sa più lingue guadagna di più ed ha più chiavi per capire il mondo.
[1] «Bureaucracies, to be democratic, must be representative of the groups they serve» (Per essere veramente democratiche le burocrazie devono essere rappresentative dei gruppi che servono); Kingsley, 1944: 305) ; Concetto analizzato a più riprese da Daniel Köbler, da ultimo in: Les langues du pouvoir. Le plurilinguisme de l’administration fédérale, Daniel Kübler, Emilienne Kobelt, Roman Zwicky, Lausanne, 2021.
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