Svizzeri popolo di sfruttatori della schiavitù? Storico è scettico
(Keystone-ATS) Gli svizzeri un popolo di sfruttatori, profittatori e complici del colonialismo, come si potrebbe essere portati a credere visto l’accumulo di mostre sul tema?
“No, questa immagine è del tutto esagerata: ma naturalmente anche la Svizzera ha un passato coloniale”, afferma Tobias Straumann, professore di storia economica all’Università di Zurigo.
Il fatto che oggi si parli tanto del tema “ha molto a che fare con la rivalutazione del colonialismo, che sta tornando ad essere oggetto di attenzione da parte della ricerca internazionale, soprattutto per motivi politici e sociali”, spiega l’esperto in un’intervista pubblicata oggi dalla SonntagsZeitung (SoZ). “Basti pensare al movimento Black Lives Matter: prima o poi la cosa si riversa anche da noi, la Svizzera sta seguendo una tendenza internazionale”.
Ma si tratta di una moda – chiede il giornalista del domenicale – o il tema è rilevante per la Confederazione? “L’argomento è importante, ma è solo uno dei tanti trattati nella storia”, risponde il 58enne. “Sì, il colonialismo, come Sempach, fa parte della nostra storia. È una gradita aggiunta alla visione ufficiale della storia. Nella ricerca storica economica non cambierà tuttavia quasi nulla di fondamentale. Sappiamo da tempo che i mercanti svizzeri erano già molto orientati verso l’estero nel XVIII secolo e che quindi erano direttamente o indirettamente coinvolti nel colonialismo e nella schiavitù”.
Quale percentuale dell’economia svizzera era interessata dalla tratta degli schiavi? “Per quanto riguarda l’economia britannica, si stima che la schiavitù rappresentasse circa il 10% della produzione economica totale intorno al 1800, se si includono tutti i collegamenti indiretti. Era quindi un fattore importante, ma non il più importante del sistema economico inglese dell’epoca. Per l’economia elvetica questa cifra doveva essere molto più bassa. Come è noto, la Svizzera non aveva colonie e quindi non godeva di una posizione di primo piano nel commercio degli schiavi come l’Impero britannico”. Si parla insomma di percentuali minuscole. “Non trascurabili, ma secondarie. Il contributo dell’economia svizzera al colonialismo globale da parte sua è stato insignificante: la storia sarebbe stata esattamente la stessa senza di essa”.
Malgrado ciò viene ripetutamente chiesto che la Svizzera contribuisca a risarcimenti o indennizzi alle ex colonie di altri paesi. “Sono molto scettico”, dice a tal proposito l’intervistato. “Chi dovrebbe risarcire chi? Le élite africane, ad esempio, sono state tra i maggiori profittatori della tratta transatlantica degli schiavi. A quanto dovrebbe ammontare il loro conto? E che dire della Turchia e dei paesi arabi? Anche loro dovrebbero partecipare. Si stima che il numero di schiavi portati dall’Africa subsahariana ai paesi musulmani sia stato superiore a quello della tratta transatlantica: circa 17 milioni di persone. Nel corso dei secoli, anche centinaia di migliaia di europei sono stati ridotti in schiavitù dai paesi musulmani: anche i loro discendenti riceveranno un risarcimento?”.
Nessuno parla di questi aspetti. “Allora le richieste di risarcimento non hanno nulla a che fare con la realtà storica. Per tornare al ruolo della classe superiore africana: ha agisto in modo del tutto volontario. Molti credono che gli europei abbiano costretto gli africani a vendere gli schiavi. È sbagliato, nel XVIII secolo non avevano i mezzi militari per farlo. C’erano singoli commercianti sulla costa dell’Africa occidentale che si rifiutavano di vendere schiavi agli europei: questo era del tutto possibile”.
Il commercio degli schiavi africani non sarebbe stato possibile senza la cultura schiavista esistente in Africa. “La schiavitù ha una lunga storia in Africa. La densità della popolazione era molto bassa a causa delle malattie e delle condizioni climatiche sfavorevoli. Questo rendeva difficile trovare manodopera sufficiente per alcune attività e questo è stato anche il motivo per cui gli europei hanno utilizzato gli schiavi nelle piantagioni del continente americano: i lavoratori liberi sarebbero fuggiti immediatamente a causa delle terribili condizioni di lavoro”.
Perché questa cooperazione dell’élite africana nella tratta transatlantica degli schiavi è raramente discussa in pubblico? “Forse perché non rientra nel solito schema colpevole-vittima”, replica lo specialista. “Eppure esiste un’eccellente letteratura di ricerca sull’argomento e questi aspetti sono stati a lungo studiati e documentati. Ma il tema della tratta degli schiavi e del colonialismo viene spesso semplificato nel dibattito pubblico”.
“Purtroppo ci sono anche alcuni scienziati che contribuiscono alla suddetta semplificazione perché perseguono un’agenda politica: per loro la scienza è un mezzo per raggiungere un fine. Questo provoca danni enormi e mi preoccupa”, osserva Straumann. “Abbiamo visto esempi di scienza molto unilaterale e politicamente motivata a Basilea e Berna: di qualità scadente e che danneggia la reputazione degli atenei”.
Cosa pensare di quanto afferma il pubblicista americano Howard French, secondo il quale sono stati i profitti della tratta transatlantica degli schiavi a rendere possibile l’industrializzazione? “Questa tesi è sbagliata, nessuno storico serio la condivide. I due stimati storici dell’economia britannici Maxine Berg e Pat Hudson hanno recentemente pubblicato un’opera d’insieme sul tema, ‘Slavery, Capitalism and the Industrial Revolution’, in cui spiegano che la schiavitù non ha fornito l’impulso per lo sviluppo del capitalismo moderno né era necessaria per esso. Questo è lo stato attuale della ricerca”.
Perché allora – insiste il cronista della SoZ – le affermazioni di French sono così popolari e i suoi libri vendono bene? “A quanto pare, oggi la gente vuole leggere e sentire che la nostra prosperità è costruita sullo sfruttamento, che siamo responsabili della miseria del mondo”, risponde l’interlocutore assai noto nella Svizzera tedesca perché spesso chiamato dai media come esperto economico. “Ma questo è storicamente e teoricamente sbagliato”.
E quale sarebbe il motivo di questa tendenza ad autoflagellarsi? “Vorrei saperlo. Forse l’alto livello di prosperità è una delle ragioni. Il mondo è anche molto ingiusto: chi nasce in Svizzera ha molte più opportunità della stragrande maggioranza delle persone al mondo, senza aver fatto nulla per ottenerle. È pura fortuna, come vincere alla lotteria”.
Siamo forse noi svizzeri gli specialisti di questa autoaccusa? Accordi con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, fondi in giacenza e ora complicità coloniale? “No, non è questo il punto. Dopo tutto, l’autocritica è una grande forza della cultura occidentale. E gli storici hanno il dovere di far luce sui lati oscuri del passato. Quello che critico sono le teorie generali che attribuiscono all’Occidente la responsabilità di tutti gli sviluppi indesiderati del mondo e denigrano ogni conquista”.
“Mi spiego brevemente con il tema Svizzera e nazionalsocialismo”, prosegue l’accademico. “È stato molto importante che il ruolo della Svizzera nella Seconda guerra mondiale sia stato riesaminato criticamente negli anni Novanta. Il popolo svizzero non dovrebbe mai dimenticare che la politica dei rifugiati ebrei è stata troppo restrittiva e disumana. Ma la affermazioni secondo cui la Confederazione, come tirapiedi di Hitler, avrebbe prolungato la guerra e quindi contratto un debito particolarmente grande vanno respinte. Per inciso, questa tesi è stata chiaramente smentita anche dalla commissione di esperti nominata dal Consiglio federale”.
Circola però anche la teoria secondo cui il pensiero colonialista del XIX secolo sia stato importante per la formazione dell’identità nazionale elvetica, nel senso di differenziare la Svizzera dai popoli presumibilmente primitivi delle colonie. “La tesi non dice altro che la fondazione dello Stato federale nel 1848 fu essenzialmente un progetto razzista: questo è un esempio perfetto di ciò che accade quando la scienza viene utilizzata principalmente per trasmettere messaggi politici”.
Dal 13 settembre al 19 gennaio il Museo nazionale di Zurigo dedicherà una mostra al colonialismo e al rapporto con esso di aziende e individui in Svizzera. “Spero che la rassegna offra un quadro completo”, commenta a questo proposito il professore. “In effetti, l’economia svizzera del XVIII e XIX secolo aveva molte relazioni commerciali globali e legami con il colonialismo. Auspico che la mostra utilizzi casi di studio chiari per mostrare come funzionavano, ma senza far sentire le persone in colpa o elevare il colonialismo a fattore decisivo della storia elvetica. Sarebbe anche importante spiegare perché l’Occidente è l’unica civiltà ad aver veramente abolito la schiavitù. Questo innegabile progresso è parte integrante di questa storia”, conclude.