Timbrare quando si va al WC? “L’alternativa è vietare il cellulare”
(Keystone-ATS) Fare timbrare i dipendenti quando vanno al gabinetto? Non solo è legale, è anche giusto e sociale nei confronti di tutti gli altri, perché c’è gente che se ne approfitta e l’alternativa sarebbe ormai vietare i telefoni cellulari.
Parola di Joris Engisch, il numero uno dell’impresa familiare del canton Neuchâtel che da una settimana è al centro dell’attualità mediatica svizzera e che ora, in un’intervista a Le Temps, prende per la prima volta posizione pubblicamente.
L’azienda in questione è la Jean Singer et Cie, attiva a Boudry (NE) e fondata nel 919: i 383 dipendenti – per il 60% donne – producono quadranti per orologi. La società ha un modello lavorativo che consiste nel tener conto di tutte le interruzioni del lavoro, comprese le pause per la toilette.
L’ufficio cantonale del lavoro (Office des relations et des conditions de travail, ORCT) aveva chiesto la modifica di questo approccio: fra le altre cose – riferiva la settimana scorsa la RTS – sosteneva che l’obbligo di timbrare “poteva incoraggiare il personale a trattenersi o a non idratarsi, con conseguenti gravi problemi fisiologici”. Sulla questione era partita una diatriba giuridica risolta (almeno fino a questo momento) dal tribunale cantonale di Neuchâtel, che ha dato ragione all’azienda. Si tratterebbe della prima sentenza sul tema in Svizzera, per una vicenda che viene quindi giocoforza seguita ben al di là dei confini cantonali.
Da allora il direttore dell’impresa in questione ha ricevuto numerose e-mail di insulti, ma anche telefonate di sostegno e spiega ora pubblicamente il suo punto di vista. “Tutti i collaboratori sono obbligati per legge a fare almeno mezz’ora di pausa pranzo. Inoltre, offriamo loro 15 minuti di pausa retribuita al giorno, che vengono automaticamente conteggiati come tali. Grazie alla nostra flessibilità di orario, i dipendenti possono arrivare al lavoro tra le 6.30 e le 8.00, fare la pausa pranzo tra le 11.30 e le 13.30 e uscire a fine giornata tra le 15.45 e le 17.30. Abbiamo quindi un’ampia gamma di orari in cui i dipendenti possono lavorare le loro otto ore. Il numero di pause non viene conteggiato, ma per ogni interruzione dell’attività, che sia per andare in bagno, fumare o chiacchierare, il dipendente deve timbrare”.
Il sistema in uso non è peraltro una novità, era già all’ordine del giorno quando l’impresa veniva diretta dal padre. “Questa misura risale a circa 30 anni fa e fu introdotta perché, all’epoca, quando gli uffici e le officine divennero non fumatori, chi fumava doveva fare una pausa all’aperto. Ma l’alternativa che alcuni trovavano era quella di fumare nei bagni, in altre parole di imbrogliare. Ci furono alcuni dipendenti scontenti, così si decise di timbrare tutte le pause come misura di uguaglianza. Questo sistema fu accolto molto bene all’epoca e chi firma un contratto oggi ne è a conoscenza. In fin dei conti permette a tutti di prendersi il proprio tempo e di fare ciò che si vuole. Oggi il problema si è acuito con i telefoni cellulari: alcune persone li portano in bagno e vi trascorrono più tempo del necessario”.
Ma non è discutibile – chiede la giornalista della testata ginevrina – paragonare una pausa sigaretta con l’andare in bagno, che non è una questione di scelta e dipende pure dalla salute, anche considerando che per l’OCRT le interruzioni per soddisfare i bisogni fisiologici non possano essere considerate pause? “La possibilità di fare ciò che si vuole durante la pausa dà molta libertà”, risponde l’intervistato. “Le persone possono andare in bagno tutte le volte che ne hanno bisogno. E questa è l’alternativa migliore quando si parla di uguaglianza, perché alcuni non vanno in bagno per andare al gabinetto. Oggi il nostro tasso di assenteismo è inferiore al 4%, a riprova del fatto che questo non causa problemi di salute e abbiamo il senno di poi per poterlo dire. Non mettiamo da parte la salute dei dipendenti: per esempio, abbiamo una sala fitness, una sala di riposo e massaggi gratuiti”.
Secondo l’imprenditore l’approccio scelto è positivo per tutti. “In termini di produttività, si evita che i dipendenti facciano pause a vuoto. Ma c’è anche una ricompensa per questa produttività: restituiamo il 15% degli utili ai nostri dipendenti. Negli anni migliori, questo può equivalere a un 14esimo stipendio. Anche questa equità è benvenuta. In molte aziende ci sono conflitti perché alcuni passano cinque minuti in bagno e altri molto di più. Sono problemi che non affrontiamo da noi. Queste misure possono sembrare antisociali, ma in realtà hanno un lato sociale ed egualitario”.
Perché consacrare tanta energia contro le autorità cantonali? “Abbiamo deciso di lottare perché è una misura che è stata adottata molto tempo fa, che funziona molto bene e che credo sia apprezzata da tutto il personale”, replica il manager. “Quindi per noi non c’è alcun motivo concreto per tornare indietro. La sentenza del tribunale ha dimostrato che eravamo nel nostro diritto. Inoltre, ha gettato le basi che saranno sicuramente riprese da altre aziende. Il problema dei telefoni cellulari si ripete ed è davvero molto penalizzante per i datori di lavoro”.
“Ognuno è libero di fare ciò che vuole, ma ho ricevuto molte telefonate da parte di datori di lavoro che già utilizzavano questa misura e che erano sollevati dal fatto che ora fosse riconosciuta dalla legge. La questione si pone quando ci sono molti abusi, e credo che ce ne siano sempre di più, perché purtroppo oggigiorno è sempre più difficile rispettare le regole”.
“L’altra soluzione sarebbe quella di vietare i telefoni, ma ai nostri dipendenti piace averli per ascoltare la musica e lo capisco”, prosegue Engisch, alla testa della ditta dal 2012, che dice pure di capire che il tema faccia discutere. “Ma la mia vera preoccupazione, che è molto più generale, è che vediamo molti paesi svilupparsi molto rapidamente, come la Cina, dove la gente lavora molto duramente. Ho l’impressione che in Europa sia più o meno il contrario. Parliamo molto di prestazioni sociali, ma affinché ci siano buone scuole e ospedali, devono esserci anche imprese che funzionano e pagano le tasse in Svizzera”, conclude il padrone d’azienda.